L’università italiana ha conosciuto negli ultimi anni cambiamenti profondi, sui quali sarebbe opportuna una più attenta discussione pubblica (www.resricerche.it). Uno dei più importanti riguarda il forte calo delle immatricolazioni e la sua variabilità all’interno del paese. Fra il 2003-2004 e il 2014-15 i nuovi iscritti si sono ridotti di oltre 60mila unità, arrivando a essere meno di 260mila (-20,4 per cento). Si tratta di una diminuzione che non ha riscontri negli altri paesi europei e che appare preoccupante, perché l’Italia ha già un numero di laureati estremamente basso: è ultimo fra i 28 paesi dell’Unione Europea per la percentuale di giovani nella fascia 30-34 anni che hanno conseguito il titolo. Se avere più immatricolati non garantisce l’aumento dei laureati, averne di meno rende certo assai difficile un incremento. Il calo delle immatricolazioni dipende da tre diversi fenomeni. In primo luogo, come già notato dal rapporto dell’Anvur (2014), le immatricolazioni di studenti “maturi” (più di 22 anni) sono drasticamente diminuite. La riforma dei cicli universitari, con passaggio al 3+2, ne aveva provocato un incremento, sia per la possibilità di completare percorsi di studio avviati nel passato e poi abbandonati, sia per generose politiche di riconoscimento di crediti formativi per le esperienze lavorative. Il fenomeno si è notevolmente ridotto negli ultimi anni: gli immatricolati “maturi” passano dai circa 60mila del 2005-06 (di cui quasi la metà aveva beneficiato di riconoscimento di crediti) ai 14mila di oggi. Se è stato opportuno rivedere le modalità di accesso, resta tuttavia la circostanza che in Italia – dove i livelli formativi e delle competenze della popolazione adulta risultano modesti se comparati a quelli degli altri paesi Ocse – le immatricolazioni di studenti “maturi” rappresentano solo un ventesimo del totale, mentre sono un quinto in diversi paesi del Nord Europa e negli Usa. Ma il calo delle immatricolazioni ha riguardato, e molto, anche i più giovani. In questo caso è però necessario distinguere i fenomeni demografici, assai differenziati all’interno del paese, da quelli comportamentali, molto più simili.
Negli ultimi lustri, tutte le aree del paese sono state interessate da un calo della natalità; ma parallelamente i flussi migratori in entrata sono aumentati e si sono concentrati prevalentemente nelle regioni del Centro e ancor più in quelle del Nord. Questo ha conseguenze sulla popolazione diciannovenne di oggi. Il suo andamento è assai diverso: cresce (particolarmente in Lombardia ed Emilia-Romagna) mentre flette molto al Sud, fino a una riduzione del 25 per cento in Sardegna. Per quanto riguarda i fenomeni comportamentali, le immatricolazioni all’università dipendono dalla quota di giovani che arriva al diploma. La percentuale è ancora in leggera crescita nella maggior parte delle regioni; ma in alcuni casi, come in Sicilia e Lazio, si riduce. Le iscrizioni all’università dipendono poi da quanti diplomati proseguono gli studi: i tassi di passaggio dalla scuola superiore all’università sono in calo sensibile e generalizzato. La loro riduzione accumuna tutte le regioni italiane: è particolarmente accentuata al Centro-Nord, con punte in Emilia-Romagna, Toscana e Lazio. Al Sud è più contenuta della media, ma con diminuzioni molto forti in Abruzzo e Molise. Il disinvestimento nella formazione universitaria sembra dunque più elevato nelle aree del paese tradizionalmente caratterizzate da livelli più alti di scolarizzazione.
L’effetto combinato di tutti questi cambiamenti è visibile. Se al Nord gli andamenti demografici compensano in parte il calo dei tassi di passaggio, al Sud le due dinamiche negative si sommano. Il quadro regionale è pertanto molto diversificato: si passa da piccole variazioni positive in Liguria e riduzioni contenute in Lombardia, Veneto e Marche, a cali drastici in Lazio, Abruzzo e Molise e poi in Sicilia, Sardegna e Calabria (in quest’ultimo caso nonostante una riduzione assai modesta dei tassi di passaggio). I dati mostrano quindi come sia in corso nel nostro paese un consistente disinvestimento sulla formazione terziaria. E come esso, accompagnandosi alle dinamiche demografiche, provochi un mutamento rilevante e molto differenziato del “bacino di domanda” delle università italiane. Ciò ha ripercussioni anche sul loro finanziamento, che è sempre più influenzato dal numero di studenti iscritti. Il quadro suggerisce una riflessione sulle politiche necessarie per accrescere il passaggio alla formazione superiore dei giovani italiani e su possibili iniziative per attrarre studenti dall’estero.
Domenico Cersosimo, Antonella Rita Ferrara, Rosanna Nisticò e Gianfranco Viesti