SARA’ UN PARLAMENTO ELETTO CON PARI OPPORTUNITA’

0
545

Nel 2003, l’articolo 51 della Costituzione fu modificato per stabilire che la Repubblica promuove con appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini nell’accesso alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza. Sono passati quindici anni e ora il principio, prima interamente disatteso, è stato tradotto dalla legge elettorale in norme puntuali di promozione della parità fra i generi. In sintesi, ogni lista di candidati incontra due vincoli di fondo: la rigida alternanza fra uomini e donne nelle liste bloccate per la quota proporzionale; la garanzia che ogni genere sia rappresentato da almeno il 40 per cento delle candidature per i capilista e nei collegi uninominali (per la Camera il vincolo opera a livello nazionale, mentre per il Senato il calcolo è regionale).

Si tratta di una regolamentazione molto stringente: le liste che non soddisfano le quote di genere sono inammissibili. Ed è evidente che non è stato semplice comporle in modo che fossero rispettose dei requisiti.
Gli strumenti utilizzati sono stati due: la presentazione di un maggior numero di candidature maschili nei collegi considerati “sicuri” e le pluricandidature femminili, marcatamente più numerose di quelle maschili. La conseguenza pratica è che, in virtù dell’alternanza di genere nelle liste, ogni donna plurieletta determina l’elezione di uno o più uomini. Si tratta evidentemente di un’arma a doppio taglio: da un lato le possibilità di elezione di quella candidata aumentano esponenzialmente, dall’altro si attenua la quota di genere fissata dalla legge.

Con gli escamotage utilizzati dai partiti la portata delle quote di genere sarà – inevitabilmente – ridimensionata. È vero che tutte le forze politiche hanno utilizzato questi strumenti, ma va affermato con chiarezza che la Costituzione e la legge elettorale muovono nel senso della promozione della parità attraverso le candidature, senza che vi sia un vincolo di risultato. Anche se il perseguimento diretto della parità di genere nella rappresentanza politica potrebbe essere un obiettivo auspicabile, non è questo il quadro costituzionale che abbiamo di fronte.

La Corte costituzionale ha sempre distinto fra misure di promozione della parità che incidono direttamente sul risultato e misure che rispettano la parità delle opportunità di elezione di candidati e candidate. E le prime sono giudicate incompatibili con il dettato costituzionale. Insomma, il legislatore può promuovere le candidature femminili ma non può stabilire a priori quante saranno le donne elette.

Accanto al meccanismo delle quote l’ordinamento italiano ha visto diffondersi negli ultimi anni, con un certo successo, la doppia preferenza di genere: l’elezione di molti consigli regionali e dei consigli comunali prevede la possibilità di esprimere un voto di preferenza o due a condizione di indicare candidati di entrambi i generi.
Queste misure di promozione della parità nella rappresentanza incidono, in misura ancor più evidente delle quote, solo sulle chance di elezione dei diversi candidati. Anche se una piena parità è evidentemente lontana, i dati segnalano alcuni trend positivi.

La prima regione ad adottare la doppia preferenza di genere è stata la Campania nel 2009: il suo consiglio regionale è passato da una esigua presenza femminile dell’8 per cento al 20 per cento del 2010 e al 22 per cento del 2015. I consigli regionali più al femminile sono di regioni che utilizzano la doppia preferenza di genere: l’Emilia Romagna (34 per cento) e la Toscana (27 per cento). Fa eccezione l’Umbria: pur con la doppia preferenza di genere le donne sono solo il 10 per cento. La legge elettorale per il Parlamento, però, non ricorre al voto di preferenza ed è incentrata su collegi uninominali e brevi liste bloccate. È uno dei motivi alla base della soluzione delle quote per la promozione della parità di genere. Ed è anche un tratto decisivo della legge al fine di cogliere il rapporto che ogni elettore ha con i candidati del suo collegio. La quota di genere per i candidati nei collegi uninominali e per i capilista dei collegi plurinominali si combina con l’impossibilità di votare un simbolo e contemporaneamente scegliere le candidate o i candidati preferiti. In alcuni collegi saranno uomini, in altri donne, nella proporzione complessivamente stabilità dalla legge. Ma la limitazione della scelta dell’elettore non è imputabile alla quota ed è intrinseca alle caratteristiche del sistema elettorale: nel collegio uninominale ogni simbolo presenta un solo candidato (uomo o donna); nel collegio plurinominale ogni lista è capeggiata da un uomo o da una donna ed è bloccata. Quindi la legge elettorale non si preoccupa, neanche sotto questi aspetti, di garantire un risultato predefinito, ma permette a tutti di candidarsi in condizioni di parità, o prossime alla parità.

In definitiva, il risultato finale sarà determinato, come è ovvio, in base ai voti espressi dagli elettori e una valutazione sulla capacità concreta della legge di promuovere l’equilibrio di genere in Parlamento potrà essere fatta solo dopo il 4 marzo. I dati presentati da Balduzzi e Voltolina mettono in evidenza che la quota del 40 per cento di candidature femminili si diluisce a causa dei comportamenti elusivi dei partiti politici. Ma la reale ricaduta sulla rappresentanza potrà essere valutata appieno solo a posteriori, anche in relazione alla loro capacità di incidere omogeneamente su tutte le liste.

Andrea Grattieri

Invia una risposta