Le magiche isole si vedono leggermente spostate a ovest. La chiesa diDevia iuxta litus maris, Santa Maria, era stata ceduta all’abate diTremiti dal vescovo Giovanni di Lucera nel 1032. Quindi adesso siamosulla principale testa di ponte della potente istituzione monastica che,nel periodo di maggior splendore, rivaleggiava con Montecassino. Ilcarisma storico e religioso non era paragonabile, ma la nobiltà normanna, interculturale e pan-mediterranea, si identificava volentieri conquegli isolotti diomedei dai quali prima o poi passava tutto il mondo.
D’impatto la spianata di Devia sembra essere solo un enorme sagrato per la chiesa di Santa Maria. Ma riusciamo a sentire la città intera sotto i nostri piedi: merito di Matteo che per noi dà senso alle pietre sparse, alle buche, ai resti di fondamenta che appena un occhio esperto può scoprire. Certo, i volumi solidamente tangibili della chiesa hanno tendenza a dilatarsi nella percezione del sito. E’ un edificio grande, e lo sembra ancora di più per il dilagare del bellissimo paramento murario. E’ vero, dice Angela, che ricorda le Pievi toscane: quelle ricche, a piana basilicale, che si concedevano tre absidi decorate alla lombarda con archetti e lesene.
La poesia del calcare aveva ispirato Rodolfo il Glabro intorno al Mille: egli vedeva come un mantello di pietre bianche ricoprire l’Europa nell’uscire da periodi tormentosi. Questa è una, probabilmente. Un muro perimetrale si può guardare per ore, ammirando la connessione perfetta del filaretto; oppure si può leggere come righi di un libro il cui ormai ci sfugge il contenuto ma non l’armonia della composizione. E le ricercatezze concentrate sulle absidi hanno un po’ la funzione di un titolo, di un richiamo, di un frontespizio: poi il resto sarà solo scrittura. Anche se rimane un filo di sospetto: non sarà una nostra costruzione culturale questa estetica della nuda pietra, questo sospetto davanti all’intonaco pur venerando?
Ma se l’esterno potrebbe essere in vari altri posti, l’interno di Santa Maria di Devia non si può pensare altrove. Non tanto per il colore di carne delle muraglie, per le colonne a conci di pietra che risentono del tempo e delle integrazioni conservative, per l’evidenza plastica delle tre absidi ognuna delle quali ha una propria vita, per il pavimento che racconta la storia. E nemmeno per i capitelli cubici di austero sapore dorico o per la ricercatezza della ghiera che alleggerisce la vista degli archi. No: la cosa che non potrebbe essere altrove sono gli affreschi, soprattutto in due catini di abside e nel fianco destro. Per qualcuno che non ha ancora fatto l’abitudine alla multiculturalità delle Terre Foggiane, questi affreschi sono fonte di sorpresa.
Prima di tutto bisogna dire: grazie di resistere. La città di Devia si spopola assai presto, e lo stato degli edifici segue le alterne fortune della Abbazia madre di Tremiti. Più tardi cercheremo di guardarla con il binocolo e ci racconteremo qualche storia. Ma sappiamo che, senza patire gli oltraggi recenti di Montecassino, la sua lunghissima vita è stata assai contrastata. Lo stesso è successo evidentemente alla filiazione di Devia, che a presidio della chiesa e a supporto gestionale degli affari in terraferma aveva certamente un monastero di cui solo la fantasia può dirci qualcosa. Si sa dalla memoria del luogo che nel tempo degli eremiti hanno custodito le sacre mura e il loro silenzio. Che l’edificio è stato adattato ad utilizzi rurali. Ma dalla documentazione fotografica sappiamo anche che per decenni il tetto è rimasto sfondato, e neppure per gli attrezzi agricoli si poteva ricorrere a questo riparo. I cambiamenti di clima, la pioggia, l’aria marina, i visitatori vandalici potrebbero aver ridotto gli affreschi a fantasmi muti, a mura dilavate. E invece no. Evidentemente i restauri sono stati fatti a regola d’arte.
Chiaramente i venti asciutti hanno impedito di marcire o il fiorire di salnitro. Sicuramente gli artisti decoratori hanno usato arriccio e pigmenti di prima qualità e tecniche pittoriche magistrali. Il committente, infine, è stato esigente e non ha lesinato sui pagamenti. Certo non pensava a noi che sette secoli dopo ci incantiamo di questa bellezza. Forse, come poi Giovanni Sebastiano, tutti pensavano al Fine: soli Deo gloria.
Tra Greco e Latino
Ma qual’è l’evidenza che sorprende i visitatori da fuori? La testimonianza di uno stato culturale in cui la visualità – e quindi la visione delmondo – greco-bizantina e quella romana sono tranquillamente compatibili e coesistenti. Eppure c’era stato lo Scisma: anzi, lo Scisma erapassato proprio di qui. La Chiesa una sancta era un ricordo, dal 1054,e ancora peggio dopo il saccheggio crociato del 1204. Ma qui, in questa terrazza sul mare, i monaci di obbedienza tremitese si fanno proteggere da Santi vescovi greci e latini, insieme, vestiti con il palliotondo o triangolare, benedicenti sia alla greca che alla latina. Vale lapena ricordare che un atteggiamento del genere è stato recuperato nellaChiesa cattolica non prima di quarant’anni fa; nelle comunità ortodosse ancora non se ne parla, e a tutt’oggi nessuno potrebbe farsi comunicare da un prete appartenente all’altra confessione.
Entrando, le immagini che colpiscono sono naturalmente i catini absidali, anche perché ti inquadrano subito e stabiliscono il tono del rapporto. Quello centrale è grande e raffigura il Cristo giovane dell’Apocalisse. La sua veste campeggia: una tunica rossa e un manto del colore che noi chiamiamo verde, genericamente, ma si trova tra il blu e il verde, come spesso in Oriente. Insoma è una classica ‘Deesis’ dipinta nel Trecento che avvolge il credente all’interno della scena.
Personaggi familiari come la Madonna che vistosamente porge le mammelle (oggi non la farebbero passare) e San Giovanni Battista, angeli, e comunque la colonna sonora: sette trombe che nella grotta di Patmo sente rimbombare il visionario Giovanni, ’o theòlogos come lo chiamano i venditori di Apocalissi tradotte in Greco moderno da Odisseo Elitis, con un filo di retorica, e da Giorgio Seferis, più asciutto e poco più lungo dell’originale. Non credono che tu cerchi di capire Seferis con l’ausilio del testo del Theòlogos: casomai, dicono, il contrario.
E’ più antico il ‘Pantocrator’ nel catino dell’abside destra. La faccia incidentata non compromette i grandissimi occhi a mandorla, la barba di pochi giorni e l’acconciatura davvero strepitosa, con un ciuffo che parte di mezzo alla fronte aggrottata e tutti i capelli che ricadono sulle spalle contornando il volto lungo. Seguendo le rughe della fronte, le arcate occipitali sono enormemente allargate, e dentro nuotano questi occhi bellissimi che attraggono i tuoi e devi fare uno sforzo per uscire dal cerchio magico. Ti benedice alla latina appoggiando il pollice sull’anulare.
Segue poi sulla parete destra una specie di porticato dipinto i cui archi sono occupati da santi e da sante, anche loro appartenenti alla prima decorazione della chiesa nel XII secolo o poco dopo. Sono questi che benedicono i credenti alla greca o alla latina. Si tratta di due gruppi da tre santi ciascuno: quelli più lontani dall’abside stanno sotto una trabeazione realistica, che si sforza di essere prospettiva. Vi è una Madonna Odighitria che divide con il bambino l’inversione al negativo del colore della faccia – forse il piombo di una biacca, come Cimabue ad Assisi? Le sono accanto due sante martiri, non per questo meno eleganti, con una croce preziosa in mano e qualche ricciolo che sfugge alla severa cuffia; gli abiti sono in seta tinta in filo con disegni molto raffinati e originali.
Questa zona degli affreschi è un po’ sacrificata da interventi posteriori, e comunque l’occhio corre subito all’angolo dopo la porta, verso la facciata: lì si staglia glorioso, allegro, vincitore un bellissimo sant’Ippolito a cavallo con lo stendardo segnato con la croce e un gran refolo di vento che gli gonfia il mantello. Suggestioni subliminari per promuovere la Crociata? O forse messa in guardia per gli inconvenienti possibili? Ippolito infatti nasce come custode carcerario di San Lorenzo; assiste probabilmente al suo tormento sulla grata; trasferito in Sardegna evidentemente ha un ripensamento che spinge l’imperatore Decio – è il 256 – a legarlo a dei cavalli indomiti fino a lasciare la vita. Certo, nella raffigurazione è lui che doma il cavallo.
Anche la parete sinistra ha il suo parato di affreschi che certo sarebbero più apprezzati se non avessero di fronte questi così suggestivi che abbiamo cercato di raccontare. Ma poi alla fine ciò che attrae i visitatori è il mare, Torre Mileto vicinissima e viva ben prima degli Aragonesi, le Tremiti che evaporano nel calore d’estate o si disegnano minuziosamente nella luce invernale (LANFRANCO TAVASCI – MARCO SQUARCINI)