SAN NICANDRO: “SOP’ O COTT’ L’ACQUA V’DDUTA”

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Continua una nuova serie di articoli che parlano sui modi di dire e degli aforismi locali per capire e analizzare la quo ed offrire una visione chiara, lucida e trasparente della condizione umana in cui ognuno di noi può legittimamente dedurre o trarre da ciascuno di essi le considerazioni che gli sembrano più ovvie in riferimento ai tempi, alle usanze, ai problemi, ai comportamenti e agli altalenanti rivolgimenti che la società sta attualmente vivendo. Gli articoli sono tratti dal libro “Voci di Capitanata” di Donato D’Amico.

Iniziamo con il detto “Sop’ o cott’ l’acqua v’dduta”, cioè “Sopra la scottatura, acqua bollente”.

Il significato del proverbio è fin troppo evidente. La scottatura, come accidente occasionale di cui ciascuno di noi può essere vittima, non ci interessa granchè. Non è la circostanza materiale o strumentale che dobbiamo esaminare, ma piuttosto l’aspetto figurativo del motto popolare, cioè, le gravi delusioni o le amare esperienze che molti uomini, loro malgrado, subiscono o sono costretti a sopportare nella e, come se non bastasse, succede spesso che ad una situazione già difficile e complessa di per sé, si aggiungono ulteriori complicazioni che la rendono maggiormente ingarbugliata e, dunque, più difficilmente risolvibile. Come dire. Al danno la beffa. Ora, stando alla tradizione popolare, il nostro proverbio ha due radici specifici: la malattia o la disgrazia fisica e pe precarie condizioni economiche familiari.

Il benessere fisico ha costituito sempre una preoccupazione per l’uomo l’approdo di ogni sua aspirazione perché la salute è lavoro, è ricchezza, è libertà. Ma per le nostre comunità montane, tante volte trascurate e dimenticate, la salute era qualcosa di più: essa veniva associata non tanto alla sanità corporale intesa in senso fisico, che era pure necessaria per andare al lavoro (che spesso veniva svolto anche in stato febbricitante), quanto alla possibilità strumentare di essere ogni giorno presente e disponibile per un qualunque e qualsiasi lavoro pur di sopravvivere alla contingenza del tempo. Ed il dramma veniva ulteriormente aggravato allorché alle già precarie condizioni di salute nuovi malanni fisici si abbattevano sulla persona compromettendone la capacità lavorativa e, quindi, l’occupazione e il guadagno.

Ancor più grave diveniva la situazione allorquando alla gracilità e precarietà della salute fisica dell’uomo si univano indigenti condizioni di famiglia. Solitamente cattiva salute e povertà costituivano nei tempi andati un binomio difficilmente scindibile, perché le possibilità economiche significavano, al tempo stesso, maggiore possibilità alimentare e migliore assistenza sanitaria. Da qui l’enorme disagio delle famiglie, che, già provate da una sorte iniqua, per via di una precaria salute e di una difficile situazione economico-finanziaria, dovevano far fronte a periodi stagionali niente affatto rimunerativi per assoluta mancanza di lavoro.

Rapportato alla situazione generale di oggi, il proverbio è ancora calzante ed attuale. Infatti, disoccupazione, guai indicibili, situazioni economiche disastrose, carenze di ogni genere, malattie irreversibili, associazioni malavitose, profonde frustrazioni, delusioni cocenti: ecco il quadro fosco e cupo che noi vediamo dipinto sul quadrante della nostra recente storia. E quando sembra di aver toccato il fondo del pantano e già si accarezza l’idea di poter uscire dalle sue acque melmose, allora, dibattendoci, ci accorgiamo di essere rimasti intrappolati in un terreno mobile ed insidioso e quanto più ci muoviamo, per cercare di uscirne, tanto più ci accorgiamo di sprofondare sempre più in basso. Ecco, senza voler suscitare nessun allarmismo, questa è la situazione odierna.