Sono nato nel Canale Stignano. La casa c’è ancora, deturpata nel suo decoro originario, su uno spiazzo nel cuore del vecchio rione. Un labirinto di vicoli e vicoletti era lo scenario che io ammiravo dal terrazzino del mio “vagghio”, che si ergeva superbo tra comignoli e abbaini delle catapecchie vicine. Visione scomparsa sotto i colpi del piccone restauratore. Sul davanzale della finestra facevano floreale mostra vasi di creta con garofani, begonie e viole.
Andai via che ero ancora bambino. Qualche giorno fa ci sono tornato, chiuse le scuole. Di sera, quando una stria purpurea incendiava l’orizzonte. Non ho trovato le visioni di allora. Serenate al chiaro di luna, canzoni passionali su accordi di chitarra e mandolino: speranze, promesse e…sospiri. La vetrata di una finestra si schiude: due occhi neri, una bocca sorridente, si profilano nella semioscurità. E nel silenzio una voce canta: “I’te vurria vasà, i’ te vurria vasà, ma ‘o core nun mmo dice ìe te scetà, e’ te scetà”. Ristrillano le chitarre e i mandolini, il tenorino smorza la sua canzone d’amore: “I’ mme vurria addurmi vicino a sciato tujo n’ora pur’ j, n’ora pur’ i”.
Quanto cammino percorso. Una eternità e un volo. Non più le donne tornano a casa con la conca in testa dai vicini Pozzi, Tapparone ha chiuso il negozio di generi alimentari, non più sulla statale brecciata i carrettieri fanno tintinnare le bardature delle giumente, non più Maccarone reca la posta con Barone, il ciuccio mai dimenticato, non più Nazario Sorciorosso gioca ai ceppi con me. Quando voglio vederlo sono io an andare alla Criminalpol nella Capitale. Ricordo i due cortei del 1° maggio, i comizi di Benedettino, le feste matrimoniali in casa, la levatrice in perenne attività, l’igiene stentatamente assicurata ed ancora i pergolati, il cavallo in casa, il maiale a cui si faceva (per noi) la festa, la fontana lassù davanti alla Cappelletta, mia madre che andare “pe d’acqua”, poi al forno di Vincenzo a cuocere pupate per mia sorella e cervoni con l’uovo in bocca per me, io che maltrattavo note con una tromba di zucca.
Ricordo Michelino il fabbro, Anonio il Cioppo, che insegnava il violino, Sagn’nat, Bellasanta e la straordinaria Assunta Pantano, madre di quell’Antonio che nella mia scuola è di eccezionale simpaoia.
Mi ricordo soprattutto le serenate. Era sempre un impasto di “vas, supir, lacr’n e passion”, ma ogni volta era un cerimoniale, una solennità, un’arte raffinata da dedicare alla bella che dietro le imposte vagheggiava chi sospirasse nei poetici gorgheggi.
Vita di allora. Ingenua, romantica, insofferente, impetuosa. Fanciulle dalle chiome castane, ricciute, disordinate, aria sbarazzina, occhi di velluto, pupille irrequiete, il volto vermiglio. Puntuali, a sera tardi, suonatori e cantanti, sotto un balcone o dietro una porta. Le intese si concordavano con sussurri, cenni ed occhiate, Poi le prime note: un assolo, una introduzione, il crescendo, l’armonia che librava bell’aria. Il cantore gonfiava il petto per il preludio, poi solleticava le corde vocali in un esercizio ripetuto per modulazioni, acuti, gorgheggi, fino alla apoteosi finale.
Messaggi e colloqui d’amore portati dalla note. La luna, lassù, ruffiana, sfoggiava la sua luminaria.
La fanciulla, ben riguardata, non aveva agio di schiudere le imposte, la curiosa incombenza spettava ai genitori, che subito riferivano circa le identità dell’orchestrina. Il vicinato era sveglio, in ascolto
Romanzi, emozioni, tormenti, passioni, disincanti, effusioni e disillusioni, storie di vita di un tempo passato. Luoghi, paesaggi, persone, folclore che i mutamenti della storia hanno ingiustamente oscurato con l’oblio e che sono rimasti storia di se stessi. Il tempo ha srotolato il gomitolo dei giorni.
Non più risuonano le serenate in quel rione, né più ho ritrovato quella bambina del volto ovale, dalla chioma di ebano, dal sorriso meraviglioso. Ancora oggi io continuo a sognare quegli occhi suoi belli che erano blu come il cielo trapunto di stelle.
Giuseppe Cristino