SAN NICANDRO: “I P’CCAT DI PATR’ LI SCONT’N I FIGGHIJ””

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Continua una nuova serie di articoli che parlano sui modi di dire e degli aforismi locali per capire e analizzare la quo ed offrire una visione chiara, lucida e trasparente della condizione umana in cui ognuno di noi può legittimamente dedurre o trarre da ciascuno di essi le considerazioni che gli sembrano più ovvie in riferimento ai tempi, alle usanze, ai problemi, ai comportamenti e agli altalenanti rivolgimenti che la società sta attualmente vivendo. Gli articoli sono tratti dal libro “Voci di Capitanata” di Donato D’Amico.

Il detto di oggi è: “I p’ccat di patr’ li scont’n i figghij”, cioè “I peccati dei padri li scontano i figli”.

E’ vero che ciascuno è responsabile delle proprie azioni, ma è anche vero che ogni azione umana ha la sua ricaduta sul sociale e, in primo luogo, nell’ambiente familiare. Ciò che vogliamo dire che raramente le spregevoli azioni degli uomini (a parte il risvolto giuridico) restano moralmente impunite, ma la gravità della situazione consiste nella circostanza che il marchio d’infamia si tramanda spesso, ingiustamente, anche sui loro figli. E’ questo il motivo per cui il nostro referente, in mancanza del padre (defunto) è il figlio, cioè, l’erede del nome della famiglia e del patrimonio morale e materiale dei genitori. In questo senso è da acquisire la validità del proverbio. Un proverbio che, secondo la tradizione, ha valore esclusivamente negativo perché riferibile solo a comportamenti ed atti indegni e vergognosi, cioè, non conformi al bene morale. Diversamente, non si parlerebbe di peccati.

Nelle piccole comunità dove tutti si conoscono, ma soprattutto dove le notizie viaggiano a velocità ultrasonica, è impossibile impedire e tanto meno sottrarre all’altrui conoscenze fatti accaduti e misfatti compiuti. La piazza del paese, il forno locale, il raduno alla fontana del rione, ecc.. erano i luoghi preferiti dove avveniva l’informazione con tutto il corredo di valutazioni, consensi, critiche, insinuazioni, censure e giudizi ad esso ricollegabili. Erano un vocio e un chiacchiericcio continui che si rincorrevano, sottovoce, da un luogo all’altro, come per una tacita intesa finalizzata all’ultimo scambio di informazioni sull’avvenimento in questione.

A volte, erano tali l’interesse suscitato dal nuovo evento e la partecipazione alla discussione che venivano istruiti veri e propri processi sommari a danno del presunto o reale autore dell’episodio o misfatto, con tanto di sentenza declaratoria che poi veniva omologata dall’opinione pubblica. Di qui, la nomea della famiglia, ma soprattutto la individuazione del povero figlio sventurato destinato a scontare, nel tempo, errori, scandali e colpe dei suoi (perché commessi dal padre). In verità siamo di fronte ad una sorta di giustizio morale che non condividiamo, perché è inaccettabile e neppure condivisibile l’idea che un soggetto debba riabilitarsi per colpa o errore commessi da altri.

Oggi, meno male, queste cose sono passate di moda, ma l’eccesso opposto non ci sta bene ugualmente. La società, cioè, viene distratta da ben più severe occupazioni e preoccupazioni, tanto che difficilmente si riesce a vivere insieme persino la intimità del focolare domestico. E questo costituisce il grande torto della società attuale che, piano piano, sta riconducendo alla spersonalizzazione dell’uomo e alla sua alienazione di ogni titolarità. Tant’è che oggi diventa difficile per l’uomo l’intessere proficui rapporti con il proprio simile. Ormai tutto è cambiato: ciascuno per sé sul grande palcoscenico della vita. Questo è il nuovo “credo” dell’umanità. Ma, ahimè!”, quanta tristezza nel cuore e soprattutto quanta intimità da recuperare se vogliamo vivere ancora l’uno accanto all’altro, in un clima di fraterna amicizia.

Con questo non vogliamo chiedere né richiedere a nessuno una professione di fede romantica. Tuttavia, di fronte ad una espropriazione delle prerogative della persona è indispensabile recuperare il senso della realtà di cui l’uomo è e deve essere protagonista.