SAN NICANDRO E IL DIALETTO: LA CULTURA DELL’APPARTENENZA

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“Parla com’ t’ha fatt’ mamm’ta”, era il vecchio incitamento che sollecitava la spontaneità espressiva alla immediatezza comunicativa, alla sincerità del pensiero.

Ma oggi che lingua parlano le madri? Sono molte, forse sempre di più, quelle che si rivolgono ai figli, appena sono in grado di articolare parola, nella “cosiddetta” lingua nazionale, timorose per lo svezzamento linguistico che poi avverrà nella scuola, perchè non risulti traumatico alle loro creature costrette a passare dal caldo latte dialettale all’asettico codice della pubblica istruzione.

Per la verità, oggi quella stessa scuola guarda con maggiore coscienza al “cosiddetto” dialetto (premetto sempre questo cautelativo “cosiddetto” perché lingua e dialetto sono sinonimi e la distinzione è solo politica; si potrebbe meglio dire “parlata” locale, nazionale meno carica di implicazioni gerarchiche). L’attenzione alle culture locali è imposta dai tempi: nel momento in cui tutto cambia velocemente, sorge in ogni persona la necessità di radicarsi nel solido terreno della cultura di appartenenza. Solo così è possibile fronteggiare l’uragano delle innovazioni e resistere, senza essere travolti, nella coscienza. E inoltre, solo chi è ben saldo nella sua cultura tradizionale sa trarre i maggiori vantaggi da un corretto rapporto con le altre culture con cui viene a contatto. Chi è radicato affronta serenamente senza paura di aggressioni in dialogo con lo “straniero”. Perché sa che ogni cultura al mondo, come la sua, ha diritto al medesimo rispetto. Quindi, diseducare il bambino allontanandolo da tutto ciò che generazioni hanno accumulato per lui nella parlata, nel costume, nella religiosità, nei modi di mangiare e di stare insieme, in una parola: nel gran mucchio del patrimonio culturale comunitario, non è solo una crudeltà, ma un errore pedagogico, che fa crescere una povera creatura debole e antropologicamente indifesa.

La cultura è vita e va colta nella sua universalità a partire dall’ambiente locale con la sua storia e i suoi valori. La trasmissione di questo patrimonio ha bisogno del proprio codice linguistico: il dialetto. E chi lo impara bene, fin dai primi balbettamenti, per essere poi aiutato a scuola nell’acquisire l’altra magnifica nostra lingua che è l’italiano dalle mille ricchezze terminologiche, è predisposto all’aggiunta di altre lingue, di cui negli anni potrà avere bisogno per le sue relazioni di là delle frontiere: l’inglese, il francese o quante altre.

Il prezzo per imparare le lingue non è la cancellazione del dialetto! Per questo è sciocco indurre nelle famiglie l’idea che bisogna insegnare ai figli solo l’italiano (o magari passare definitivamente all’inglese) e non la lingua della comunità locale se si vuole aiutarli nella vita.

Non si devono rimuovere i vincoli di appartenenza così necessari al formarsi di ogni identità culturale. No, quindi, alla ripulsa del dialetto come se si trattasse di uno strumento umile e vergognoso. Si creano tendenzialmente degli incerti, delle persone che in molti casi non sapranno instaurare i buoni rapporti con il prossimo. Chi possiede solo un codice comunicativo è prigioniero della sua limitatezza, si tratta di parlata locale o nazionale. Il cosmopolita sradicato e cinico, come il derelitto scemo del villaggio, sono patetiche figure di un mondo fatto di persone che si voltano le spalle.

BU