SAN NICANDRO, COME SI FACEVA IL BUCATO UNA VOLTA DI GIUSEPPE CRISTINO

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Una volta sul Montevergine si mettevano ad asciugare le robe, sulle macchie, al sole. Oggi ci sono i detersivi, una volta si usava più fatica, senza le comode lavatrici, solo con i mezzi della tradizione, ma i risultati erano sorprendenti. Un tempo, ogni quindici giorni o ogni mese, si faceva il bucato, si metteva a liscija, in genere panni bianchi (lenzuola, federe, saccone e asciugamani di tela bianca). Gli altri panni si lavavano a parte sulla tavuledda con la cenere americana accattata alla puteca. Si disponeva la secchialonga (o tina) in legno, un grosso vaso panciuto di forma tronco-conica, alta più o meno settanta centimetri, con una larga apertura, nella parte superiore, di circa ottanta centimetri di diametro, chiusa sul fondo ad eccezione di un foro di sfiato laterale (cauto), che venina tappato da uno struedd (cavicchio) di legno o da un pupuro (pannocchia), ambedue avvolti da uno straccetto a mò di guarnizione, per la tenuta stagna.

Le lenzuola e il resto venivano messe a strati nella tina fino a riempirla. Il tutto poi era coperto da un telo in canapa a maglie abbastanza rade. Mentre una grossa tiedda d’acqua era messa a bollire nel camino, si setacciava della cenere per pulirla da eventuali impurità e la si spargeva sul telo di canapa. Quando l’acqua bolliva la si versava sulle cenere e, attraversandola, permetteva il rilascio sulla biancheria sottostante del bicarbonato di sodio che, penetrando nelle fibre dei panni, detergeva e sgrassava compiutamente e, passando di capo in capo, si radunava, dopo un certo tempo, sul fondo. Allora si toglieva il tappo e in un altro recipiente si raccoglieva il misto di acqua e cenere, che veniva fatto scaldare e di nuovo versato nella tina. L’operazione veniva ripetuta più volte tante quante la massaia riteneva necessarie,

Finiti il lavaggio, si lasciava riposare e raffreddare il tutto che veniva poi sc’carato in acqua limpida. I panni venivano attorcigliati, strizzati e sistemati su grosse tavole (tavuler), trasportate sulla testa ed equilibrate con una spara (cercine). Si raggiungevano le collinette circostanti il paese e si mettevano le lenzuola ed il resto ad asciugare su un prato. Erano larghe macchie bianche sciorinate sul verde brillante dell’erba.

Nel percorso, al passaggio delle giovani donne, c’erano i giovanotti che speravano di guadagnarsi un’occhiata do ragazza e si volevano inzurare.

Quando era tutto asciutto, le lenzuola venivano ripiegate come in una specie di danza: afferrate da due donne erano prima tirale a forza, fatte ballonzolare, poi piegate in due, poi in quattro, poi si univano i due capi e si riponevano. Di solito le lenzuola non si stiravano, si stirava invece la biancheria più piccola con un ferro da stiro pesantissimo che si apriva nella parte superiore per permettere l’inserimento di carboni incandescenti e che ogni tanto andava dondolato o sciusciato per ravvivarne la brace.

Chi non l’ha mai visto non può descrivere il biancore accecante di quelle lenzuola e chi non lo ha sentito non può mai sapere cos’era l’odore, la fragranza di quella biancheria che usciva dal bucato e si mescolava con profumo dell’erba e dei fiori di campo.

Giuseppe Cristino