Valeria De Tommaso ripercorre l’iter legislativo del provvedimento che stabilisce alcuni criteri per assicurare salari minimi adeguati in Europa e armonizzare la situazione nei Paesi membri. Un esercizio importante per capire cosa potrebbe accadere anche in Italia.
l 7 giugno 2022, la Commissione, il Parlamento e il Consiglio dell’Unione Europea hanno raggiunto l’accordo politico provvisorio sulla proposta di Direttiva relativa a salari minimi adeguati nell’Unione Europea. Il documento stabilisce alcuni criteri per garantire salari minimi adeguati, sotto forma di salario minimo legale o di salari determinati nell’ambito di contratti collettivi (differenza importante, di cui abbiamo recentemente parlato qui), in tutti i Paesi membri. E nei fatti sarebbe un passo importante per dare attuazione a una delle azioni principali del principio 6 (“Salari) del Piano d’azione del Pilastro Europeo dei Diritti Sociali. In questo articolo approfondiamo qual è stato l’iter legislativo della Direttiva, i suoi contenuti e le ultime tappe che mancano per renderla definitiva.
Le tappe dell’iter legislativo europeo
Il cosiddetto Trilogo – che riunisce i rappresentanti di Commissione europea, del Parlamento europeo e del Consiglio dell’Unione Europea1 è stato chiamato a negoziare sulla misura nata dalla proposta di Direttiva relativa a salari minimi adeguati, presentata dalla Commissione europea2 nell’ottobre 2020. Il 7 giugno scorso, le tre istituzioni europee hanno raggiunto un accordo.
Nel dettaglio, l’iter legislativo ordinario è partito il 28 ottobre 2020 quando la Commissione europea ha presentato la proposta ai due co-legislatori, il Consiglio dell’UE e il Parlamento europeo. Il Parlamento ha poi adottato il suo mandato negoziale il 25 novembre 2021. Infatti, nell’ambito della procedura legislativa ordinaria, il Parlamento può – a seguito dell’adozione della decisione sul mandato negoziale – avviare i negoziati con le altre istituzioni. A seguire, anche Il Consiglio dell’Unione Europea ha definito la sua posizione il 6 dicembre 2021. Da inizio gennaio sino a maggio del 2022 si sono quindi svolti otto cicli negoziali tra il Consiglio dell’UE e il Parlamento che, il 7 giugno scorso, hanno portato all’accordo provvisorio sulla Direttiva con la Commissione europea.
Il 15 giugno è arrivato anche il via libera da parte del Coreper3, l’organo del Consiglio dell’Unione Europea che coinvolge il Comitato dei rappresentanti permanenti, riunitosi a livello di ambasciatori degli Stati membri. L’Italia, come altri 23 Paesi, si è espressa in favore della norma mentre Svezia e Danimarca hanno votato contro; l’Ungheria si è astenuta. Il giorno dopo, anche il Consiglio ha approvato il testo
Il 12 luglio si quindi è riunita la Commissione Occupazione e Affari sociali4 che ha dato il via libera, mentre a settembre si terrà l’ultimo passaggio con una Plenaria del Parlamento a Strasburgo, in cui il voto d’aula dovrà sancire l’approvazione definitiva. La Plenaria rappresenta, infatti, il punto d’arrivo del lavoro legislativo effettuato in seno alle commissioni parlamentari e ai gruppi politici. La Plenaria del Parlamento deciderà se approvare, definitivamente, il testo della Direttiva nella formula attuale o modificare la formulazione del progetto comune: se lo respinge o non si pronuncia al riguardo, l’atto non è adottato e la procedura si conclude. L’approvazione avviene a maggioranza semplice.
Cosa prevede la Direttiva
Attualmente il salario minimo esiste in 21 dei 27 Paesi dell’Unione Europea. Non lo hanno Italia, Danimarca, Finlandia, Austria, Svezia, Cipro. La Direttiva non obbliga gli Stati membri a introdurre salari minimi legali, né fissa una soglia comune valida in tutta l’UE. Essa si limita a stabilire alcuni criteri per assicurare dei minimi salariali, al di sopra della soglia di sussistenza, tenendo conto del costo della vita e del potere d’acquisto dello Stato membro di riferimento. Le due strade alternative mediante cui raggiungere questo obiettivo sono:
un salario minimo fissato per legge; l’estensione della copertura della contrattazione collettiva. Tale copertura dovrà arrivare all’80% anche, ove necessario, tramite un piano di azione sotto il monitoraggio dell’UE. La Direttiva prevede tre pilastri principali. L’ampliamento dell’applicabilità del salario minimo ad una maggiore platea di lavoratori; la promozione della contrattazione collettiva e la partecipazione delle parti sociali nella definizione dei salari; appalti pubblici, monitoraggio e raccolta dati.
L’adeguatezza e l’equità dei salari minimi
Nel rispetto dell’adeguatezza e dell’equità dei salari minimi, la proposta prevede che i Paesi con un salario minimo mettano in piedi un sistema per la governance e l’aggiornamento di quest’ultimo. Si tratta, dunque, di definire i criteri che consentano l’aggiornamento dei valori minimi salariali (ad esempio: il potere d’acquisto, il livello di inflazione, la distribuzione e la crescita dei salari, la produttività del territorio).
Andranno poi utilizzati riferimenti indicativi per stabilire un livello di salario minimo. Ad esempio, nel documento che aveva aperto alle consultazioni, nell’ottobre 2020, la Commissione faceva riferimento alla soglia della povertà relativa: il 60% del reddito mediano disponibile fra tutti i contribuenti residenti in un territorio (non era definito se a livello nazionale, regionale o provinciale). Il 7 giugno scorso anche il Commissario europeo per il lavoro e i diritti sociali, unitamente ai relatori del Parlamento, aveva fatto esplicito riferimento alla soglia del 60% del salario mediano, ma come cifra indicativa e non imperativa.
Il Consiglio e il Parlamento europeo hanno inoltre convenuto che gli aggiornamenti dei salari minimi legali avverranno almeno ogni due anni. Ogni quattro anni per quei Paesi che utilizzano un meccanismo di indicizzazione automatica. È perentorio che anche le parti sociali siano coinvolte in tutte le procedure di definizione e aggiornamento dei salari.
La promozione della contrattazione collettiva e la partecipazione delle parti sociali
La Direttiva mira poi a promuovere la contrattazione collettiva come mezzo di difesa dei salari. Le istituzioni europee hanno stabilito che gli Stati membri dovranno promuovere la capacità negoziale delle parti sociali. La Direttiva impone l’aumento della contrattazione collettiva; infatti, secondo quanto riportato, nei Paesi in cui la copertura è maggiore, tende a esserci una quota inferiore di lavoratori a basso reddito.
Si chiede agli Stati membri con una copertura inferiore all’80% dei lavoratori dipendenti con minimi salariali di raggiungere quella soglia. In questa prospettiva, l’Europa conferma di voler tutelare il sistema di contrattazione con minimi tabellari, su cui si reggono Paesi come l’Italia, in cui non c’è un salario minimo legale stabilito per legge. Questo conferma, da un lato, la necessità di istituire organi consultivi e, dall’altro, di coinvolgere (tempestivamente) le parti sociali nella determinazione e nell’aggiornamento dei salari minimi legali, anche mediante la partecipazione agli organi consultivi. Inoltre, riafferma il principio secondo cui salario minimo e contrattazione collettiva possano coesistere.
Appalti pubblici, monitoraggio e raccolta dati
L’ultimo punto della Direttiva si occupa di due aspetti trasversali e cruciali.
Il primo riguarda ‘esecuzione degli appalti pubblici e dei contratti di concessione, dove gli operatori economici (compresa la successiva catena di subappalto) devono conformarsi ai salari applicabili stabiliti dalle contrattazioni collettive e ai salari minimi legali, laddove esistenti.
Il secondo aspetto riguarda invece il sistema di monitoraggio e raccolta dei dati, che va rafforzato in virtù del suo ruolo strategico nel ridefinire il design degli interventi futuri nell’ambito.
Le resistenze dei sindacati e nei Paesi scandinavi
La proposta è finora stata oggetto di diversi contrasti. Ad oggi sono infatti emerse sul fronte sindacale e in materia di “retribuzione”, sottratta alle competenze dell’Unione e riservata agli Stati.
In particolare, sin dall’inizio dell’iter decisionale si è manifestata una forte opposizione dei Paesi scandinavi, che attraversa in particolare la sinistra politica e sindacale. Questa ha aperto una frattura evidente anche all’interno del sindacato europeo. In virtù delle loro tradizioni nelle relazioni industriali, i Paesi scandinavi ritengono che la Confederazione Europea dei sindacati non abbia mostrato solidarietà nei loro confronti. Nonostante i tentativi di accordo, la Direttiva non prevede un riferimento imperativo al fatto che i salari minimi debbano essere applicati a tutti i lavoratori. Per questo Svezia e Danimarca hanno votato contro l’accordo interistituzionale del 7 giugno scorso.
Nei Paesi nordici, infatti, i salari sono negoziati tra sindacati e datori di lavoro, senza nessun intervento dello Stato. Inoltre, una porzione di lavoratori è esclusa dalla contrattazione collettiva poiché non iscritta ad un sindacato. Sono le stesse organizzazioni sindacali che appoggiano la loro esclusione, per incentivare i lavoratori a sindacalizzarsi ed evitare problemi di free-riding, ovvero beneficiare della copertura sindacale senza pagare i costi.
L’ultimo miglio: tra continuità, cambiamento e opposizioni
Rispetto al 2020, il dibattito sul salario minimo ha guadagnato spazio nell’arena politica europea. Il raggiungimento dell’accordo, seppure provvisorio, mostra come la volontà politica sia quella di lasciare ampia discrezionalità agli Stati membri. Il salario minimo trova, inoltre, un diretto supporto “politico” nel Pilastro Europeo dei Diritti Sociali e in particolare nel suo sesto principio, dove anche i minimi salariali sono oggetto di una precisa previsione. Una Direttiva su salari adeguati, se approvata, andrebbe ad includere un ulteriore tassello nel quadro normativo già inaugurato, tra i diversi strumenti, dalla Direttiva su condizioni di lavoro trasparenti e prevedibili.
Siamo dunque all’ultimo miglio prima dell’introduzione di un istituto del salario minimo europeo? Questa seconda metà del 2022 è decisiva; l’ultimo step come detto si terrà a settembre. In tale occasione il Parlamento europeo si esprimerà – a maggioranza semplice – sul testo della riforma. Le resistenze sono però ancora numerose. La proposta si scontra infatti con le eccezioni previste dall’art. 153.5 del Trattato sulle Funzioni dell’Unione Europea (il TFUE) rispetto al tema della “retribuzione”, a cui si appellano: alcune delle organizzazioni datoriali europee, più propense per un intervento di soft law; i Paesi del Nord Europa, preoccupati per gli effetti sul loro sistema volontaristico di relazioni industriali; i Paesi dell’Europa centro-orientale, timorosi di dover innalzare i loro livelli salariali perdendo così competitività esterna di costo.
Vedremo se nelle prossime settimane queste posizioni potranno essere smussate per arrivare all’approvazione definitiva della Direttiva, che nelle scorse settimane è stato al centro anche del dibattito in Italia. Di cui vi parleremo in un prossimo articolo. (secondowelfare.it) (foto. Ansa)