L’emergenza Covid-19 ha rilanciato il tema del fabbisogno di personale nel Ssn. Ma quante assunzioni sono necessarie, con quali specializzazioni e in quali zone del paese? Occorre definire una metodologia che dia risposte standard a queste domande.
Medici e infermieri in tempi d’emergenza. L’emergenza Covid-19 ha rilanciato il tema del fabbisogno di personale nel Sistema sanitario nazionale, argomento già sollevato in passato da alcuni sindacati di categoria, più per consolidare rendite di posizione acquisite che per proporre una necessaria revisione della modalità di presa in carico dei pazienti. Se negli anni scorsi l’affermazione apodittica “manca il personale” spesso non corrispondeva al vero, ora la riduzione del finanziamento del Servizio sanitario nazionale degli ultimi tempi e il Covid-19 hanno reso evidente il problema, in particolare per le regioni in piano di rientro che spesso hanno dovuto subire un blocco quasi totale del turn over.
Il tema è centrale, anche nella bozza di legge di bilancio 2021 approvata il 16 novembre dal Consiglio dei ministri e ora all’esame del Parlamento. In sintesi, oltre a prevedere un incremento di circa 1 miliardo del fabbisogno sanitario standard per il 2021 e ulteriori aumenti sino al 2026, all’articolo 76 vengono prorogate le disposizioni sull’impiego di personale nel Sistema sanitario nazionale previste sia dal decreto “Cura Italia” che dal decreto “Rilancio”.
Davanti all’immissione straordinaria di risorse nel sistema, finalizzata sostanzialmente a reclutare temporaneamente personale per tamponare l’emergenza Covid, occorre interrogarsi su come verranno poi utilizzati questi professionisti, una volta che il sistema sia tornato alla gestione ordinaria. Vogliamo utilizzare queste risorse per continuare a dare linfa ad assetti organizzativi inefficienti e inefficaci (vedi mancata presa in carico della cronicità in gran parte dell’Ssn)? Oppure vogliamo ripensare il sistema dalle fondamenta, attraverso una ristrutturazione organizzativa ambiziosa, e incominciare a prevedere una coerente distribuzione delle risorse per ottenere i risultati migliori in termini di assistenza sia a livello territoriale che ospedaliero?
Una nuova organizzazione per il Ssn. Sotto il profilo della ristrutturazione organizzativa dell’Ssn, alcuni timidi segnali si possono trovare nella bozza del Piano nazionale ripresa e resilienza (Pnrr). Del progetto iniziale sono rimasti (per ora?) 9 miliardi di euro, di cui 4,8 dedicati all’assistenza di prossimità e alla telemedicina e 4,2 all’innovazione, ricerca e digitalizzazione dell’assistenza sanitaria. Se sono condivisibili i principi richiamati nel documento (come il potenziamento della rete territoriale, l’integrazione socio-sanitaria e di assistenza sanitaria integrata, le centrali operative territoriali – Cot – e gli ospedali di comunità) che puntano a obiettivi coerenti, resta aperta la discussione non solo sulla rotta da seguire, ma soprattutto sui modelli organizzativi a cui approderà il sistema. Il tema non è di poco conto in quanto proprio quei modelli condizioneranno le metodologie attraverso le quali le regioni decideranno se e come riorganizzare le reti di offerta (ospedaliera, territoriale, prevenzione) e, dunque, se ricollocare il personale già in servizio o reclutarne unicamente di nuovo (ammesso che si trovino le figure professionali sul mercato del lavoro) con i finanziamenti europei.
Con un investimento rilevante sul territorio, sulla domiciliarità e sulla digitalizzazione, infatti, la rete ospedaliera va profondamente riformata, rafforzando esclusivamente i dipartimenti di emergenza e accettazione di 1 e 2 livello e riconvertendo gli altri ospedali a una nuova vocazione territoriale. Su questo tema, però, i decisori tacciono o, come si rileva dalla scheda 15 del Patto per la salute 2019/2021, vogliono addirittura cambiare il decreto ministeriale 70/2015 per consentire la riapertura di ospedali chiusi o riconvertiti, riportandoli alla originaria missione di assistenza per acuti.
In cerca di una metodologia. Anche al di là delle attuali contingenze, il tema è centrale da tempo, se non altro per ragioni di controllo della finanza pubblica. Come evidenziato dalla tabella 1, l’evoluzione normativa ha riconosciuto la necessità di avviare una nuova stagione di assunzioni nell’Ssn, subordinandola dal 2021 (articolo 11, c. 1, Dl 35/2019) “(…) all’adozione di una metodologia per la determinazione del fabbisogno di personale in coerenza con quanto stabilito dal Dm 70/2015”.
Esistono già, dunque, metodologie di definizione del fabbisogno di personale in sanità da cui partire?A livello nazionale, la necessità di individuarle si era manifestata per la valutazione dei piani di fabbisogno di personale presentati da regioni e province autonome ai sensi della legge di stabilità 2016 (articolo 1, comma 541) e del Dm 70/2015. Proprio in sede di tavolo ministeriale di monitoraggio del decreto, un gruppo di regioni (Piemonte, Veneto, Emilia-Romagna, Lazio e Puglia) ha prodotto una prima metodologia di calcolo del fabbisogno di personale per i presidi ospedalieri, riportata in un documento tecnico approvato in Commissione salute nel dicembre 2017.
La metodologia calcola il fabbisogno di personale in base a tre fattori: organizzazione della rete di offerta, produzione e tempo lavoro. Poiché è frutto di una mediazione tra modelli di calcolo adottati in Ssr diversi, su alcuni punti, come ad esempio per l’attività ambulatoriale o per le sale operatorie, il documento rinvia a criteri regionali o a successivi approfondimenti che finora non sono stati pubblicati. La metodologia costituisce la principale linea di indirizzo per il Ssn, pur non essendo ancora stata convertita in norma, trova applicazione in alcune regioni e viene utilizzata dai “tavoli ministeriali” in particolare nel monitoraggio delle regioni in piano di rientro.
Per quanto riguarda l’area territoriale, la situazione è molto diversa. L’eterogeneità organizzativa dei diversi Ssr è qui indubbiamente più ampia rispetto alla parte ospedaliera e a ciò si aggiunge la stratificazione di norme nazionali che hanno dato solo un perimetro ad alcuni ambiti organizzativi (ad esempio il distretto) lasciando per il resto largo spazio alle scelte delle singole regioni. Tanta complessità ha fatto sì che sovente le regioni – fatte salve alcune realtà con sistemi consolidati di programmazione e monitoraggio delle risorse, come ad esempio il Veneto – nell’emanare le linee guida per le aziende sanitarie ai fini della predisposizione dei Piani triennali di fabbisogno del personale, abbiano indicato come riferimento il numero di residenti dell’Asl. La sfida lanciata nel 2016 dal Piano nazionale di criticità di giungere a un modello univoco di stratificazione dei fabbisogni della popolazione, potenzialmente utile in una logica di programmazione del personale, è ancora aperta e al momento non appare in via di soluzione.
Occorre, pertanto, sviluppare una metodologia che permetta di dare una misura alle diverse componenti del sistema di offerta (ospedaliera e territoriale) mettendo in correlazione bisogno di salute, prestazioni sanitarie e risorse (principalmente personale). Generalmente, il paradigma teorico prevede di partire dai bisogni di salute della popolazione per programmare prestazioni e servizi e poi allocare il finanziamento. Per il Ssn non è possibile realizzare una correlazione diretta tra bisogni e risorse, in quanto la capacità produttiva delle aziende sanitarie si è strutturata nel tempo rispondendo a stimoli diversi. D’altra parte, le risorse o sono un vincolo di partenza o rincorrono modelli organizzativi consolidati, anche inefficienti. Nel definire la metodologia di fabbisogno di personale è dunque imprescindibile partire non solo da numeri teorici relativi a parametri statici (ad esempio, posti letto o numero di abitanti), ma anche dai dati di attività, che da una parte ci danno una dimensione da confrontare con il reale bisogno di salute e dall’altra ci permettono di specificare attraverso un riferimento standardizzabile le risorse necessarie alla loro produzione.
Da anni, il Ssn si è dotato da anni di un sistema di flussi informativi per i dati di produzione della maggior parte dei livelli di asistenza che possono essere utilizzati, come noi abbiamo fatto in alcune esperienze operative, per mettere in correlazione bisogni sanitari e risorse umane necessarie, secondo un processo ciclico di misurazione – programmazione- produzione – rivalutazione e adeguamento programmatorio.
In conclusione, sulla base dell’esperienza gestionale e di quanto sinora esposto, occorre che sul dimensionamento del fabbisogno di personale:
1) siano adottati standard nazionali flessibili, che prevedano un range di valori minimo e massimo;
2) si definiscano dapprima gli standard teorici partendo dai bisogni, anche basandosi su misure a “corpo” come tipologia di ospedale, numero di posti letto, numero di abitanti;
3) si identifichino standard che utilizzando i flussi di attività reale (prestazioni e servizi erogati) definiscano la quantità e qualità del personale necessario per l’attività;
4) si confrontino gli standard teorici di personale (punto 2) con quelli derivanti dalla misurazione dell’attività effettivamente erogata (punto 3). Per l’attività ospedaliera, sostanzialmente è già possibile, per il territorio si possono utilizzare norme, riferimenti e indirizzi nazionali già esistenti (ad esempio, attività consultoriale, psichiatria, specialistica e così via), in attesa di una loro revisione o di un loro sviluppo.
La necessità di standard è ancora più urgente oggi, con le prevedibili ulteriori immissioni di infermieri, medici, tecnici e altro personale (programmazione della formazione universitaria coerente, quantitativa e qualitativa permettendo) in seguito all’applicazione delle norme d’urgenza e del varo del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr). Solo così si eviterà, o quantomeno si ridurrà, il rischio che i piani di fabbisogno di personale si basino solo sul buon senso o, peggio ancora, sulle pressioni delle varie categorie. (lavoce – Ragnar Gullstrand e Fulvio Moirano)