L’incremento nei requisiti di età necessari per la maturazione del diritto alla pensione di vecchiaia, conseguenza degli automatismi introdotti dalla riforma del 2011, ha nuovamente infiammato il dibattito. Le modalità con cui la discussione si è sviluppata, e le proposte che ne sono scaturite, tradiscono il disinteresse del legislatore e delle parti sindacali nei confronti del principio contributivo, introdotto nel 1995, ma ancora poco incisivo sulla nostra spesa per pensioni, a causa di una transizione scandalosamente lunga.
In un sistema pensionistico contributivo infatti non esiste “un’età” di pensionamento. Al contrario, questa può essere scelta dal lavoratore. La flessibilità è prevista ad esempio in Svezia, la nazione che sembra aver accolto in maniera più coerente nella sua normativa pensionistica i principi dei sistemi contributivi, e così è stato anche in Italia fino al 2004. Dal 2005 al 2011 poi si è tornati all’età fissa per riaffermare, con la riforma del 2011, una fittizia flessibilità ornata dalla presenza di vincoli sull’importo maturato (2,8 volte l’assegno sociale per un anticipo di tre anni e 1,5 volte l’assegno sociale al raggiungimento dell’età della pensione di vecchiaia) e dall’introduzione del legame automatico, e quindi non negoziabile, tra variazione nell’aspettativa di vita a 65 anni e requisiti di età e contributivi per l’accesso alla pensione.
Il governo si è quindi opposto alle richieste dei sindacati di abolizione del meccanismo di adeguamento automatico e (seppure aprendo ai lavori usuranti) ha cercato di tenere il punto sulla riforma del 2011. Due sono le ragioni di questo comportamento.
- A livello finanziario ci sono i motivi che derivano dal “principio di cassa”: un anticipo generalizzato dell’età di pensionamento, rispetto al sentiero disegnato in occasione della riforma del 2011, che incorporava l’adeguamento automatico dell’età pensionabile, determinerebbe una crescita immediata del numero di prestazioni e quindi della spesa per pensioni rispetto a quanto previsto nei tendenziali di bilancio. L’effetto “cassa” è magnificato in Italia dal fatto che una quota importante delle prestazioni di coloro che accederanno al pensionamento nei prossimi anni sono ancora calcolate con la generosa regola retributiva.
- A livello microeconomico nel medio-lungo termine il legislatore è preoccupato dal fatto che l’anticipo dell’età di pensionamento possa mettere a repentaglio la capacità del sistema pensionistico pubblico di garantire prestazioni adeguate. Del resto, che l’adeguatezza (teorica) delle pensioni pubbliche italiane potrà essere raggiunta nel lungo periodo solo grazie a un aumento cospicuo dell’età di pensionamento è esplicitamente riportato in documenti ufficiali.
Ma quale è la variazione “corretta” dell’età di pensionamento di fronte ai miglioramenti nell’aspettativa di vita? La questione può essere posta in questo modo: se la vita attesa di un individuo o di una coorte di individui (e presumibilmente di tutte quelle nate dopo) cresce di un anno è necessario che tutto il guadagno di vita debba essere speso nel mercato del lavoro?
Anche in questo caso le esigenze macro-finanziarie sembrano prevalere su quelle individuali: la prospettiva della incipiente transizione demografica e del forte peggioramento degli indici demografici lascia capire che, a livello aggregato, l’aggancio automatico e completo dell’età di pensionamento alle aspettative di vita rientra nel più ampio pacchetto di misure che servono per contrastare la riduzione prospettica nel numero dei lavoratori rispetto a quello dei pensionati.
Detto in altri termini, l’età di pensionamento, in contrasto appunto con la logica contributiva, è a pieno titolo uno degli strumenti per il raggiungimento degli obiettivi di stabilità finanziaria.
Chi è svantaggiato? C’è poi la questione delle categorie svantaggiate perché sottoposte a lavori usuranti.
In un sistema che si ispira a una logica di tipo assicurativo, il blocco dell’adeguamento dell’età pensionabile per i lavoratori impiegati in attività usuranti andrebbe a parziale compensazione del fatto che queste categorie hanno una aspettativa di vita minore rispetto a quella media. Una collettività può certo decidere democraticamente di impiegare risorse a favore di categorie svantaggiate, ma lo deve fare in modo trasparente, soprattutto stimandone la dimensione finanziaria di medio-lungo termine e fissando un criterio di equità che permetta di fissare in modo il più possibile oggettivo chi è svantaggiato e chi non lo è. Altrimenti tutto si complica e nella confusione è più facile per altre categorie di lavoratori “penalizzati” e non ancora beneficiati richiedere adeguamenti migliorativi.
La crescita della spesa per pensioni italiana nei passati decenni è stata causata anche dalla continua rincorsa tra le differenti, numerose categorie di pensionati verso trattamenti sempre più favorevoli e più costosi per la collettività.
Carlo Mazzaferro