Il racconto inviato Matteo Gioiosa all’amico Emanuele Petrucci
Quando ho visto postata la foto di San Nazario ho pensato ai miei anni d’infanzia trascorsi a Torre Mileto. Questa frase introduttiva, magari fa pensare a una lunga permanenza a Torre Mileto, e… invece… state a sentire! Mio padre aveva un cavallo dal pelo nero e un carretto (trajìn) con due ruote giganti con la circonferenza coperta di ferro per rendere più leggera la fatica del cavallo lungo la strada… brecciata. Durante l’anno “agrario” mio padre con mia madre coltivava il podere che l’Ente Riforma gli aveva assegnato a “Don Luca”. Chiuse le scuole, andavo con loro durante la mietitura e la pesatura fatta dal cavallo con gli occhi bendati con una stoffa nera. Da Don Luca si vedeva la striscia del Lago e del mare e io dicevo a mio padre: «Papà quando andremo a Torre Mileto?» E lui rispondeva: «Zitte, a papà toja, a Sand Lazzar ama jì a Torre Mileto». Nel giorno della vigilia di San Nazario mia madre rimase a casa per preparare il pranzo e il dolce che dovevamo consumare a Torre Mileto.
Quella sera mio padre arrivò quando ancora era giorno per far riposare il cavallo che doveva condurci a San Nazario e successivamente a Torre Mileto e… a casa. Verso le dieci di sera (prima si contavano le ore così, oggi si dice alle 22… si vede che siamo evoluti, no?!!) il carretto era già pronto e i passeggeri erano pronti già da un pezzo, specie gli invitati che, abitualmente erano i miei cugini. Iniziammo l’avventura (era la prima volta che andavamo a San Nazario e la stessa prima volta era per Torre Mileto.) In dialetto mio padre disse: «ringraziamo Dio che sta una bella luna che illumina il nostro cammino di notte.» Questa frase ebbe un’aggiunta: Mbè mo ama candà “U péde de Sand Lazzàr”. Mia nonna paterna e mia madre intonarono il canto e noi ragazzi assieme al comandante di quella comitiva, che era mio padre, seguivamo le due donne. Iniziammo il canto verso le undici di sera (ore 23), eravamo all’alba vicino San Nazario, precisamente al secondo casello rosso, e il canto ancora non finiva. Ogni tanto qualcuno di noi ragazzi chiudeva gli occhi trafitti dal sonno e anche provocato dalla litania continua di un canto che iniziava dal piede e passava in rassegna tutti gli organi (anche interni) della persona del Santo! Il canovaccio del canto era abbastanza semplice, bastava imparare i versi della prima strofa: Italiano Dialetto quello che cantavamo noi. Il piede di San Nazario U péd d Sand Lazzàr Quanto si adora, quanto si adora! quand ciadòra, quand ciadòra Si adora come il cuore di Gesù Ciadòra come u Còr d Ggésù San Nazario aiutaci Tu! Sand Lazzàr aiut’c tu! Siccome il canto era terminato al secondo casello rosso, prima di arrivare alla masseria di Zaccagnino lo si ricominciò iniziando sempre dal «piede» e terminando il canto all’arrivo a San Nazario.
Era l’alba del giorno 28 del mese di luglio, scesi dal carretto, ci recammo in Chiesa per pregare il Santo e lodare il Signore Dio nostro. Questa era la dicitura (in dialetto) delle anziane signore che erano nella nostra comitiva (mia madre e mia nonna paterna). Per me, come per tutti della comitiva, quella di San Nazario fu la prima esperienza, che poi si ripetè fino a quando mio padre abbandonò il carretto e il cavallo. Grande festa per noi ragazzi alla vista nei dintorni della Chiesa di tante bancarelle che vendevano torrone e noccioline e altre che vendevano «pupate» di cartone inamidato e pitturate. Le mie cugine si incantarono su quelle «pupe»… io mi incantai sul “curlo”: in italiano «la ruzzola»: un piccolo cono di legno massiccio con una puntina al vertice (tipo chiodo). La circonferenza conteneva strettissimi canaletti nei quali si avvolgeva un filo resistente che serviva, una volta tirato, ad azionare u curl . Il venditore era un artista nella dimostrazione al pubblico infantile e adulto. Era talmente svelto che agli astanti sembrava un gioco facilissimo (e invece, dopo comprato non era proprio facilissimo e nettampoco facile… era proprio difficile). Ma la pazienza e i lunghi esercizi servirono ad imitare il venditore di curli. La gioia fu quando il curlo girava sempre più veloce e più a lungo. E quelli che assistevano alla dimostrazione battevano le mani. Che gioia procurava quel battimano; d’altronde costituiva il premio dei miei lunghi esercizi. Portammo a casa io u curl e una delle cugine la “pupata di cartone inamidato” che sarebbe stata condivisa nel gioco con l’altra cugina. Papà pensò alla compera di noccioline e di torrone da mangiare a Torre Mileto. Dopo l’ascolto della messa e la partecipazione alla processione nel breve percorso davanti alla chiesa, salimmo sul carretto per fare la seconda tappa… Torre Mileto, anche qui la mia prima esperienza. Fine prima tappa del percorso. Si dice che il veleno si dà un poco alla volta per non causare la morte di colui che è costretto a ingoiarlo (qui colui che è costretto a leggere). Alla seconda tappa di percorso raggiungeremo finalmente la Torre Mileto della mia infanzia. Alla prossima.
Foto tratta dal Volume 4° de “LE BELLE IMMAGINI DI SAN NICANDRO GARGANICO” di Emanuele Petrucci
Matteo Gioiosa