Il tema affrontata nel libro “Sannicandro Alba novecento” di Silvio Petrucci è quello della moralità all’inizio del secolo scorso. Interessantissima la conoscenza dell’argomento.
Il livello di moralità a San Nicandro era nel complesso soddisfacente anche se, sotto una vernice di falso pudore e d’ipocrito puritanesimo, il costume presentava anche lì i nei della gretta vita provinciale. Certo il concubinaggio era diffuso ma senza eccessivo scandalo, specie se consumato da anziani scapoloni con mature vedove e con qualche moglie di emigrato. E si passava anche sopra con pietosa tolleranza “poverettii, sono di carne ed ossa anche loro!” – alle troppo frequenti scappatelle di qualche prete, uno dei quali, giovane, aitante e biondo, si diceva che di notte andasse agli appuntamenti travestito da pastore, con gli “zampitti” ai piedi. E si diceva che i putti paffuti, biondi e riccioluti, erano somigliantissimi al clandestino procreatore in tonaca. Ma, ripeto, non se ne faceva scandalo, come quando Don Nicola Bevilacqua, allontanatosi dal paese in abito talare, vi tornò in pantaloni a braccetto di una sposa, una procace apricenese, o come quando si seppe che il prete Don Matteo Pacilli, improvvisamente scomparso, faceva lo scapolone a Roma.
Di scandali autentici ve ne furono tre, così clamorosi che turbarono profondamente l’opinione pubblica. Il primo fu quello di una affascinante signorina di distintissimo casato, travolta dalla passione per un galante calzolaio che andava a casa a prenderle le misure per le scarpine. Il secondo caso fu quello di una ragazza di buona famiglia che scappò col marito della sorella. Il terzo quello di un atto di libidine tentato da un bruto, in aperta campagna, su un giovinetto studente. Episodi comunque trascurabili di fronte a quello che si registrò vent’anni dopo: quello del sacerdote, il figlio di “Marialena”, che uccise l’amante dalla cui figlia si dice che pretendesse, in cambio della dote che le aveva promesso per le nozze, il “jus primae noctis”. (Ed era un sacerdote che cantava con voce celestiale…). Rarissimi o pressoché ignorati i casi di adulterio ed infine quai inesistente la prostituzione pubblicamente e clandestinamente esercitata.
La patina di farisaico pudore con cui spesso si celano certi scabrosi aspetti provinciali del costume, in conclusione a San Nicandro non appannava lo smalto di una sostanziosa moralità a riprova della quale c’era anche la severa sorveglianza a cui erano condannati e a cui volontariamente si sottoponevano i giovani innamorati. Far all’amore, anche per il più innocente flirt, era, almeno fino al fidanzamento, una specie di supplizio: escluso qualsiasi contatto diretto, al di fuori dello scambio clandestino e intenso di lettere ardenti, al cui recapito provvedevano compiacenti comari. La quotidiana corrispondenza di amorosi sensi si manifestava con sospirose passeggiate sotto i balconi o le finestre da cui qualche volta, nelle ombre discrete della sera, pioveva un fiore sul quale era stato stampato un bacio.
Quanto era lunga e difficile la via per la conquista del primo bacio. Bisognava per lo meno attendere al fidanzamento ufficiale (chiamato “la trasciuta” – l’entrata -, mentre la “menata” era il mezzo violento con cui un giovane faceva la sua dichiarazione all’amata, strappandole il fazzoletto di testa e snodandole i capelli ed infine c’era il ratto quasi sempre consensuale).
E com’era castigato il linguaggio, il quale, anche tra uomini, rifuggiva normalmente dalla scurrilità, salvo durante le partite natalizie a tombola, quando la rumorosa estrazione di ogni numero dalla cassetta veniva sempre accompagnato da salacissimi commenti, con audaci assonanze allusive e piccanti esilaranti similitudini in versi estemporanei.