Si ripropone l’articolo del quotidiano “La Stampa” di ieri 31 gennaio in cui si fotografa nettamente la questione della criminalità nazionale e come a Foggia la mafia è tra le più cattiva d’Italia.
I dati della polizia confermano: Foggia è tra le emergenze principali. Spaccio di droga e racket costituiscono le maggiori fonti di guadagno. Gli agguati. La Scientifica in località Molinella (tra Vieste e Peschici Gargano), dove lo scorso 30 è stato ammazzato un pregiudicato. A Vieste il 26 gennaio 2015 è stato ucciso il boss Angelo Notarangelo. La Società foggiana è capace di farti del male da vivo e da morto. Prima soffocandoti l’esistenza, poi uccidendoti e sfigurando il tuo cadavere con il colpo di grazia consegnato a un fucile a pallettoni. Non è sufficiente farti fuori è importante umiliarti. La Società foggiana non ha il giro d’affari di Cosa nostra, della ’ndrangheta e della camorra, ma tra tutte e quattro oggi è la mafia più cattiva. E per quanto si tratti di uno spaccato finito fuori dai radar della comunicazione tradizionale, sono le statistiche della polizia di Stato a imporre la fotografia di un mondo vicino al collasso, che precipita Foggia in testa alle classifiche delle emergenze criminali. Il punto è che nel foggiano si spara. E lo si fa ogni giorno. Da settembre a oggi, con picchi in novembre e dicembre, ci sono stati quattro omicidi e otto tentati omicidi. E dieci bombe sono esplose davanti ai negozi. Punizioni per chi non paga il pizzo. O anche avvertimenti per esercizi commerciali vicini: se non ti pieghi salti per aria anche tu. «Quello che succede qui è inimmaginabile, eppure nessuno ne parla, come se nei duecento chilometri di strade tra Foggia e il Gargano esistessero solo Padre Pio, gli ulivi, la mozzarella buona e il mare azzurro», dice il questore Piernicola Silvis. In effetti non c’è nulla di religioso nella Società foggiana, nemmeno i rituali di affiliazione. Niente santini bruciati, niente sangue scambiato, niente che possa lasciare traccia. Solo un patto definitivo, spesso di tipo familiare, che neppure la morte è in grado di sciogliere. «Lo spaccio della droga e il racket sono le principali fonti di guadagno. Soprattutto il racket. Secondo i nostri calcoli l’80% dei commercianti foggiani paga il pizzo. Ma praticamente nessuno lo denuncia». Otto negozi su dieci. Cioè tutti. «Omertà, paura, disabitudine alla legalità. Tanto che con la procura stiamo cercando di trovare un modo per accusare di concorso esterno i commercianti che non denunciano il racket. Loro e gli imprenditori edili. Perché qui ogni volta che si apre un cantiere la richiesta di pizzo è automatica». Peccato che il concorso esterno sia pieno di fragilità legali in generale, figuriamoci in questo caso. Ma Silvis insiste. «Io sono foggiano e i miei concittadini li conosco bene. Sono testardi. E l’unico modo per convincerli a collaborare è essere decisi». Un tentativo di mettergli più paura della mafia. La mafia, però, di paura ne fa tanta.
Le richieste di denaro. Giovanna Parlante, titolare di una pizzeria in via Corso, riduce al minimo le parole perché le considera una trappola. Ma quelle che usa fanno male. E’ una donna solida, pratica, che pochi anni fa ha sconfitto un tumore al cervello. Un miracolo. Che con la Società foggiana non le è riuscito. La sua pizza al taglio era una meraviglia (lo è ancora). Centinaia di clienti. Ottimi prezzi e ottimi affari. Poi è arrivata la mafia. «Mi hanno imposto di comprare la mozzarella da loro». Lei lo ha fatto. Solo che la mozzarella faceva schifo. E la pizza peggio. Si è ribellata. E’ cominciato il calvario. Le hanno bruciato la macchina. E poi hanno cercato di entrarle in casa. Ha dovuto mettere le telecamere per proteggersi. Quindi ha chiamato la Fondazione antiracket di Tano Grasso. Lei dice: «Ho voglia di mollare tutto». Tano, che adesso è nel negozio di via Corso, risponde: «Non lo fare. Ti organizzo una pizzata con un sacco di gente. Prefetto, questore, autorità, chiunque. Fuori ci sarà la fila. La tua è una miniera d’oro». Ne ha fatte centinaia di operazioni di questo tipo. Normalmente funzionano. Anche per la criminalità è più facile sfruttare chi non si ribella, chi non chiede aiuto a carabinieri e polizia, chi rimane con le spalle al muro. «Insieme vinciamo», insiste Tano. Insieme vinciamo. Giovanna fatica a crederci.
La legalità del noi contrapposta alla legalità dell’io, per stare a un’espressione coniata dal sostituto procuratore Giuseppe Gatti della Dda di Bari. Un’idea che fatica a diventare progetto. Giovanna fissa il pavimento quasi volesse aggrapparsi a un punto invisibile per non svenire. Dov’è questo insieme? Da chi è formato? Quanto è forte? Per lei è difficile da capire. «In strada la gente mi insulta. Mi gridano “infamona”. Molti clienti non vengono più. E anche l’assistente del dentista, che prima era tutta sorrisi, ora neanche mi saluta». La mafia ha un dentro e un fuori. E’ questo che la caratterizza. Il dentro è la violenza eletta a sistema, il fuori è l’appoggio di pezzi di società che ti fanno il vuoto attorno. Intanto l’antiracket ha fatto avere a Giovanna una macchina nuova. «E’ vero, li ringrazio. Ma me la riempiono di sputi», dice lei con la voce che si fa sempre più lontana. «Non mollare», le dice Tano. «Non mollo», dice Giovanna, ma l’angoscia le esce a ondate. Ed è come se adesso il suo corpo non avesse né muscoli né sangue. Il figlio la prende tra le braccia. «Dai mamma». Ci si arriva in cima a questa salita? La Federazione antiracket a Foggia ha aperto appena un anno fa, grazie all’iniziativa di Cristina Cucci, che oggi ne è la presidente. «Siamo in 15. Ma spero che presto si associno altri 10 commercianti». Piccoli numeri in una città di 160 mila abitanti. Cristina, che ha 35 anni e un viso gentile, vagamente francese, si è rivolta ai carabinieri nel 2013. Aveva un negozio per organizzare eventi e matrimoni quando ha ricevuto una telefonata. «La voce di un uomo mi chiedeva duemila euro al mese. Io e mio marito abbiamo deciso di rivolgerci alle forze dell’ordine. Un maresciallo dei carabinieri mi ha dato assistenza. E’ stato bravo. Mi sono sentita protetta. In poco tempo hanno arrestato un ragazzo che non faceva parte della Società, ma io ho deciso che mi dovevo impegnare, per abbattere questo muro di omertà che sembra impenetrabile». Il suo negozio è ancora aperto. La legalità del noi? «La legalità del noi». Un concetto che fatica a trovare cittadinanza anche nel cuore delle istituzioni. Il comune di Foggia, per esempio, non si è costituito parte civile nel processo «Corona», nato dall’arresto (nel luglio del 2013) di 24 presunti mafiosi. Quando Tano Grasso ne ha chiesto ragione il sindaco – incidentalmente di centrodestra – lo ha attaccato frontalmente. Sostenendo che Grasso non si doveva permettere e che la mancata costituzione di parte civile era dipesa solo da un errore burocratico. Solo. Nemmeno le opposizioni hanno fiatato sulla questione. Dettagli, forse.
La mappa criminale. Schematicamente la mappa del crimine organizzato nel foggiano si può riassumere così: da un lato la mafia del Gargano, dall’altro quella di Foggia, San Severo e Cerignola. Antonio Basilicata, comandante provinciale dei carabinieri, spiega le differenze: «La criminalità garganica è a struttura familiare e fa riferimento alla ’ndrangheta. La mafia foggiana, che si estende anche a San Severo, è costituita da batterie che fanno capo a un vertice, poi c’è un consorzio di capi stile camorra napoletana. La criminalità cerignolana si occupa prevalentemente di rapine e traffico di droga». Ognuno ha il suo ruolo, ognuno il suo mercato. Cerignola, 55 mila abitanti, è una sorta di capitale europea della rapina in grande stile, con una predilezione per gli assalti ai caveau e ai furgoni blindati. Una specialità della casa esportata in tutta Italia, da Milano ad Ancona, ma anche fuori dai confini. Professionisti senza scrupoli, aggressivi e violenti. Il loro colpo più noto è quello del 25 giugno 2014. Un’azione militare non andata a buon fine. Arrivarono a Foggia e bloccarono diciannove strade che circondavano il caveau dell’istituto di vigilanza N. P. Service. Diedero alle fiamme diciannove camion creando un gigantesco cerchio di fuoco attorno all’obiettivo e paralizzando la città. Poi, con una ruspa, cercarono di abbattere l’edificio. Sbagliarono mira e non trovarono il caveau. Era mezzanotte, arrivò la polizia. Ci furono una sparatoria e una fuga, che si è conclusa solo due giorni fa, quando gli uomini della polizia hanno messo in galera i 12 componenti della banda. «Cerignola è come Corleone o Casal di Principe. Ma c’è qualcuno che lo sa?», si chiede Piernicola Silvis. «Ogni giorno sul nostro mattinale finisce almeno una rapina compiuta da loro».
Il caso Foggia. La Società foggiana domina in città e a San Severo grazie a una sorta di federazione divisa in tre batterie che fanno capo alle famiglie Moretti-Pellegrino, Sinesi-Francavilla e Trisciuoglio-Tolonese. E’ gente abituata a uccidere e a prendere ciò che vuole, impegnata in questi giorni in una nuova guerra territoriale, la settima, che ha come traguardo la saldatura tra la Società e la mafia garganica. Per raggiungere l’obiettivo è più facile spararsi che mettersi attorno a un tavolo. L’ultima vittima è stata, sette giorni fa, il 47enne Rocco Dedda, che gli inquirenti considerano vicino al clan Sinesi-Francavilla. Lo hanno aspettato nel giardino di casa. E lo hanno finito con quattro colpi tra il petto e l’addome. Erano le tre del pomeriggio. E’ una catena di morte senza fine. Perché l’omicidio chiama vendetta.
La mafia garganica. L’ultima parte del problema: il Gargano. Qui lo scontro è tra le famiglie Romito e li Bergolis. L’affare è quello del turismo. Perché su una delle coste più belle d’Europa arrivano ogni anno due milioni di turisti. Il taglieggiamento ai villaggi e agli alberghi è costante. Chi non paga si ritrova la piscina piena di nafta, i cani ammazzati davanti alle scale o i cancelli abbattuti a colpi di furgoncini che perdono casualmente il controllo. Eppure proprio nel Gargano l’antiracket ha prodotto i suoi frutti migliori. Ventisei commercianti si sono messi assieme e si sono costituiti parte civile in due processi successivi. In aula c’erano le vittime. Ma tra i banchi c’erano anche loro. «Un messaggio che i mafiosi capiscono bene», dice Vittoria Vescere, presidente del Fai di Vieste. «Più occupiamo spazio noi, meno ne resta per loro. E’ una scelta che dobbiamo ai nostri figli». Un pezzo di Gargano si ribella, Foggia ancora no. In dieci anni la procura non ha potuto contare su un solo pentito. A differenza di quello che è successo a Bari, dove negli ultimi due anni i pentiti sono stati 15. «La nostra storia non è la nostra legge», dicevano gli illuministi. Solo che Foggia non lo sa.