IL LATO NEGATIVO DEL CROLLO DEL PETROLIO

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L’offerta di petrolio ha superato la domanda e ha provocato un crollo dei prezzi, arrivati ai livelli più bassi degli ultimi dodici anni. Il mercato potrebbe riequilibrarsi in tempi relativamente brevi, ma certi cambiamenti saranno permanenti e investiranno diversi livelli di mercato provocando un nuovo squilibrio.
Il prezzo del petrolio è determinato dalla relazione tra domanda e offerta. Tra il 2002 e il 2012 la spesa in investimenti di capitale dell’industria dell’energia è quasi raddoppiata. La maggior parte delle risorse è stata assorbita dall’upstream, cioè dai processi a monte. Il fenomeno ha coinvolto in primo luogo i settori tradizionali. Tuttavia, lo sviluppo negli Usa della tecnologia del “fracking” ha consentito di estrarre petrolio anche da formazioni rocciose prima non considerate produttive. Il fenomeno del cosiddetto “shale oil” ha permesso agli Stati Uniti di toccare il picco di produzione di 9,6 milioni di barili al giorno nell’aprile 2015.
Sebbene il Medio Oriente arabo sia ancora il principale produttore, lo shale oil ha reso gli Usa un nuovo polo di produzione tanto che il Congresso americano ha deciso, nel dicembre 2015, di rimuovere il divieto di esportare petrolio statunitense in vigore da più di quarant’anni. La domanda di greggio, di converso, è costantemente aumentata su base annua in media di circa 1 milione di barili al giorno, in linea con una generale crescita economica mondiale, ma non abbastanza da assorbire la produzione. Tuttavia, lo Short Term Energy Outlook pubblicato a gennaio 2016 dalla Eia (Energy Information Administration) ha individuato i segni una progressiva convergenza tra domanda e offerta e prevede il raggiungimento dell’equilibrio nel 2017. Un’analisi attenta dei dati pubblicati dalla Eia consente di apprezzare l’influenza che le scorte di greggio hanno sui prezzi, soprattutto nel breve periodo. Durante il 2015 la forbice tra produzione e consumo di petrolio ha creato un significativo aumento delle scorte di greggio disponibili. La crisi diplomatica tra Iran e Arabia Saudita del gennaio 2016 avrebbe presumibilmente avuto effetti inflativi se le scorte fossero state minori o non ce ne fossero state. D’altra parte, l’apprezzamento del dollaro sulle altre valute registrato nel 2015 ha certamente contribuito a contenere la domanda di greggio: più la valuta Usa aumenta di valore e più diventa costoso acquistare il petrolio, i cui prezzi sono espressi in dollari. In un contesto di prezzi in forte contrazione, il 4 dicembre 2015 l’Opec ha deciso di non ridurre la produzione per il terzo anno di fila, mantenendo il livello di 31,5 milioni di barili al giorno. L’Arabia Saudita ha deciso di preservare la sua quota di mercato e di mettere pressione sui produttori americani. La sostenibilità nel tempo della strategia saudita dovrà essere verificata alla luce delle politiche di bilancio correnti dei paesi esportatori. Le analisi del Fondo monetario internazionale infatti suggeriscono che i membri dell’Opec abbiano bisogno di prezzi al di sopra dei 60 dollari al barile per raggiungere il pareggio di bilancio.

I prezzi bassi del petrolio hanno avuto un significativo impatto sulle imprese americane dello shale oil, già fortemente indebitate: alla fine del 2015 erano trentasei le imprese estrattive che hanno fatto ricorso al Chapter 11 (la procedura concorsuale federale). Le compagnie petrolifere più grandi hanno cominciato a ridurre gli organici, oltre che a tagliare e ritardare ulteriormente i programmi di sviluppo. L’italiana Eni ha invece scelto di ridurre i dividendi pagati agli azionisti e di concentrare ulteriormente le sue attività nella ricerca ed estrazione degli idrocarburi (si pensi alla cessione probabile della chimica) mantenendo i livelli occupazionali correnti. Molti operatori hanno riformulato le loro strategie rinunciando allo sviluppo di mega-giacimenti a favore di ampliamenti di campi già in produzione. Le compagnie con maggiori livelli di indebitamento e risorse finanziare limitate saranno oggetto di acquisizioni da parte di società più forti o saranno forzate a cedere asset. Negli Usa, lo shale oil è stato sostanzialmente assorbito dalle società petrolifere tradizionali. Il sistema bancario americano dovrà però gestire il debito considerevole lasciato dalle molte società del settore divenute insolventi. Il calo degli investimenti avrà conseguenze sui livelli di produzione, destinati a scendere. Questo non si tradurrà in un aumento dei prezzi nel breve periodo. Considerata l’entità delle scorte di greggio i prezzi scenderanno ancora nel corso del 2016, magari anche sotto i 20 dollari. Gli stessi prezzi creeranno però gli incentivi per un maggiore consumo di petrolio (un colpo forte agli accordi di Parigi del dicembre 2015 sul cambiamento climatico) L’andamento delle scorte determinerà la velocità della ripresa dei prezzi. I paesi Opec hanno al momento una “spare capacity” di circa 1,7 milioni di barili al giorno (piuttosto bassa). Al contrario paesi non Opec non hanno nessuna “spare capacity”. La crescita dei consumi resa possibile dai prezzi bassi e dalla ripresa economica porterà a un esaurimento delle scorte nel 2017 ed è ragionevole prevedere a partire dal quel momento un aumento consistente dei prezzi. Se l’economia tornerà a crescere a ritmi sostenuti, il 2018 si preannuncia come l’anno di un nuovo squilibrio. L’industria conterà meno protagonisti degli anni passati e sarà interessata, prima di tutto, a rifarsi delle perdite subite a partire dal 2015.

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