I CALCOLI SULLA PENSIONE E SULLA RIVERSIBILITA’

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Foto Daniele Leone/LaPresse 23-07-2014 Roma, Italiacronaca Manifestazione di Ugl pensionati per chiedere la fine delle tassazioni capestro ed il ripristino del potere d'acquisto delle pensioni. Piazza Montecitorio

Il tema pensionistico è nuovamente al centro del proscenio, ammesso che sia mai rimasto dietro le quinte. Accantonata, sembra, la revisione – sacrosanta a mio avviso – delle pensioni basate sul metodo retributivo proposta da Tito Boeri, oggi si discute del diritto alla reversibilità, sebbene il terreno sia tutt’altro che chiaro. Di chiaro c’è solo l’intento di ridurre la spesa pensionistica. La versione moderna della giustizia distributiva consiste nell’assicurare a tutti un “minimo” per vivere e il “superfluo” a chi se lo guadagna, purché sia garantito un “accettabile grado” di uguaglianza nelle opportunità. La diversità di vedute sta nel fissare l’asticella dei concetti, ma il principio spero sia ampiamente condiviso. Riportandolo alle pensioni, c’è un punto, banale quanto talvolta trascurato, da cui bisognerebbe partire e che consiste nel distinguere ciò che è previdenza da quello che è assistenza. Dove costituisce prestazione previdenziale solo la parte della pensione maturata secondo il metodo contributivo (a condizione che il periodo di godimento corrisponda all’“effettiva” speranza di vita del beneficiario). La parte eventualmente eccedente è assistenza, indipendentemente da come è maturata o dal tipo di pensione. Mentre il riconoscimento della componente contributiva, non importa quanto elevata, è né più né meno che la restituzione di un fondo accumulato nel tempo dal beneficiario – è un atto dovuto – la parte assistenziale non lo è in assoluto poiché non è stata “guadagnata”. Si tratta di un trasferimento la cui opportunità dipende, appunto, dal reddito o dalle necessità del pensionato: in sostanza, dipende da considerazioni di equità e sulla base di criteri che possono evolvere nel tempo. E non c’è da invocare la tutela costituzionale dei diritti acquisiti: diritti acquisiti in nome di cosa, se manca il “titolo” previdenziale o lo stato di necessità per accedere a quello assistenziale?

Questo elementare principio dovrebbe ovviamente valere anche per la reversibilità, che comporta un allungamento del periodo di godimento della pensione, a parità di contributi a suo tempo versati. Se include una componente assistenziale oppure no, dipende quindi da come viene calcolata la pensione contributiva, vale a dire dai “coefficienti di trasformazione” fissati dall’Inps, ossia dalla percentuale del complesso dei contributi accumulati che determina l’ammontare annuo del trattamento pensionistico e quindi in via indiretta anche della quota reversibile. Dal momento che più in là si va in pensione, minore sarà il tempo durante il quale ce la potremo godere, i coefficienti crescono con l’età in cui si comincia a percepire la pensione. Di qui due scenari. Se l’arco di tempo di godimento coincide con la speranza (statistica) di vita del titolare della pensione, alla sua morte avrà riavuto indietro tutto quanto aveva versato durante la vita lavorativa. In questo caso, la reversibilità comporterebbe un godimento suppletivo da parte dei superstiti, che andrebbe considerato assistenziale poiché privo di contropartita contributiva.  Se invece la metodologia di calcolo della pensione già incorpora anche il “supplemento di vita” – allungando il periodo statistico di godimento dopo la morte del titolare e in modo corrispondente riducendo dall’inizio l’importo della pensione – allora è un trattamento previdenziale che va riconosciuto indipendentemente dal reddito del superstite. Incrociando i dati Istat sulla speranza di vita con quelli utilizzati dall’Inps per calcolare la pensione, per le classi di età 65-69 e 70-74 anni, si verifica in effetti che sono sostanzialmente coincidenti: 18 e 15 anni, a seconda delle classi di età, di speranza di vita e di godimento della pensione. Su questa base statistica (assumendo che gli interessi maturati siano congrui) si dovrebbe dunque concludere che la reversibilità rientra fra i trattamenti assistenziali. Sarebbe quindi equo determinare l’importo annuo della pensione del titolare non solo in base alla sua personale speranza di vita, ma anche a quella del nucleo familiare che potrebbe diventarne beneficiario (esemplificando, la speranza di vita del coniuge più giovane) – un calcolo che non sembra proibitivo – restando aperta la possibilità di integrazione assistenziale, se giustificata. Questo consentirebbe, fra l’altro, anche di porre rimedio a una recente norma che stabilisce che in caso di matrimoni contratti dopo i 70 anni di età del pensionato (o pensionando) con un coniuge più giovane di 20 anni, la reversibilità sia riconosciuta solo per una quota del 10 per cento moltiplicata per gli anni di sopravvivenza del pensionato post matrimonio, cosicché la pensione piena di reversibilità potrà essere percepita dopo dieci anni di matrimonio. È la cosiddetta norma “antibadanti”, giustificata quanto si vuole da comportamenti opportunistici di una o di entrambe le parti (magari anche un virtuoso incentivo ad assicurare lunga vita al pensionato). Una norma però fondamentalmente ingiusta e di dubbia costituzionalità, discriminatoria e basata sulla presunzione di contrastare una “mezza truffa”: una presunzione assoluta, non smentibile dagli interessati, mentre l’onere della prova, semmai, dovrebbe spettare caso per caso all’amministrazione pensionistica. Liberissimo quindi un ultraottantenne che già gode di pensione di sposarsi con un o una minorenne, purché a valle della firma del sindaco, la sua pensione sia immediatamente ricalcolata in base alla speranza di vita del coniuge, “accorciata” per tenere conto che la quota reversibile è minore di 1. Va da sé che il principio andrebbe applicato in tutti i casi, incluso quello in cui il defunto abbia ricevuto un trattamento retributivo; la reversibilità dovrebbe valere solo sulla quota contributiva, fatto salvo il “diritto” del superstite a integrazioni, appunto, assistenziali.

Mario Sebastiani

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