Si chiamava in verità Torre Maletta: nome del cognato di Federico, Manfredi Maletta di Mineo, fratello di Bianca Lancia. Zio, quindi, di re Manfredi e proprietario dei terreni su cui, a sue spese, si costruirà la città di Manfredonia. Forse (un sussurro) eponimo della stessa città. O forse solo protagonista di una colossale speculazione edilizia.
Dobbiamo pensare Torre Mileto come una componente del sistema di comunicazione costiero in funzione antiturca. I fusti di cannone di una marsiliana di Venezia affondata al largo nel 1607 – la Poma Santa Maria – ci ricordano che la zona dal punto di vista geopolitico non ha mai cessato di essere molto calda. Lo stato di allerta era continuo: a volte con successo, a volte no, come sappiamo. Matteo ci apre una dietro l’altra le porte e le finestre di questo edificio sorprendente, restauro da antologia che avrà un riuso importante per la comunità. Guardando dalla terrazza più alta si ha la sensazione precisa di un ingranaggio che si estende sia a filo della costa, sia all’interno del Gargano alle isole Tremiti.
Il terreno attorno alla torre è tutto da scavo, e si capisce che le manifatture neolitiche di San Domino dovevano avere qui un approdo per esportare strumenti finiti e importare quella quota di materia prima necessaria per diversificare la produzione, come l’ossidiana dalle Eolie (ne abbiamo visti dei giacimenti importanti in Anatolia, tra la Cappadocia e la Cilicia, ma probabilmente non riuscivano a esportarlo fino a qua). Del resto niente ci impedisce di fantasticare su un tempo in cui il Gargano e le Tremiti emergevano dal mare, mentre il Tavoliere era un fondale marino. E comunque qualcuno di simile a noi si è accomodato molto prima nella Foresta Umbra che a Cala Matano.
Uno scavo molto sbrigativo nella memoria ci ricorda una delle magiche storie del Gargano. Se in fondo a San Nicola di Tremiti c’è il cimitero islamico dei cittadini deportati a più riprese dalla Libia, qui a Torre Mileto avvenne la circoncisione e l’immersione rituale (temilah) di tredici persone convertite all’ebraismo. Era il 1946 e i nuovi israeliti accettati dalla Sinagoga di Roma seguivano la predicazione del profeta Donato Manduzio. Successivamente gran parte di essi passò in Terrasanta per una nuova crociata, e sarà nell’esercito israeliano, lo Tsahal. I loro discendenti abitano vicino alla città di Safed, piccolo e famoso centro intellettuale attorno a una sinagoga suggestiva.
Donato Manduzio da Sannicandro Garganico è uno di quelli che la prima guerra mondiale ha rimandato a casa senza salute e senza lavoro. Vive per le sue doti di guaritore e le sue declamazioni pubbliche dei romanzi cavallereschi. Finché nel 1930 non riceve l’illuminazione: una visione gli rivela l’unicità di Dio e la necessità di ritornare alla lettera della Bibbia.
L’aspetto singolare è che egli non sa che gli ebrei esistono ancora: lo scoprirà per caso, e cercherà di mettersi in contatto con la Sinagoga proprio mentre sta per scoppiare la persecuzione razziale. Per nulla turbato dalle circostanze infauste seguite al 1938, avrà nel 1943 il primo incontro ravvicinato con una comunità israelitica costituita da perplessi soldati alleati. Le prime impressioni non sono favorevoli, perché Manduzio si è fatto ebreo da solo, non conosce il Talmud, nulla sa di ortodossie e di liturgie. In definitiva sarà qui, a Torre Mileto, che le diffidenze reciproche saranno superate e che la circoncisione dei tredici convertiti segnerà l’accoglienza del singolare profeta nel seno di Abramo.
Chissà se nel tempo vi saranno stati contatti, o conoscenza, o messaggi, tra il profeta Manduzio e l’altro visionario del Gargano, Pio da Pietrelcina? Forse è blasfemia porre la questione. Ma non possiamo scordare che il Gargano è prodigo di visioni. A partire da quelle concesse ai fedeli avvolti nel vello del caprone appena sacrificato nel tempio di Podalirio, durante il rito notturno dell’incubatio. (Lanfranco Tavasci – Marco Squarcini)