ECONOMIA O SALUTE? IL DILEMMA CHE NON C’E’

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La seconda ondata di Covid-19 ha riaperto il dibattito fra chi vorrebbe concentrarsi solo sul contenimento del virus e chi invece pensa si debbano limitare le già forti ricadute sul tessuto economico. Ma è un dualismo che i dati sembrano smentire.

La fatica da lockdown. La seconda ondata di Covid-19 ha indotto i paesi europei ad adottare nuove misure volte a contenere il tasso di contagio tramite la riduzione della mobilità individuale e dunque dell’attività economica. Queste misure non sono prive di costi e, proprio come durante il “great lockdown“ dello scorso marzo, mettono a dura prova il tessuto economico e sociale, specie le piccole imprese e le famiglie meno abbienti. Questa volta però il sostegno per le misure adottate dai vari governi è meno convinto. Il protrarsi delle difficoltà economiche e la crescente insofferenza verso le misure di prevenzione, definita da alcuni “pandemic fatigue“ (“fatica da pandemia”), sta alimentando infatti un vivace dibattito sul presunto dualismo tra salute pubblica ed economia.

La gestione della pandemia da parte del consiglio federale svizzero, più restio di altri governi a introdurre misure che riducono le libertà individuali, ad esempio, è stata duramente criticata proprio perché le autorità elvetiche avrebbero scelto di sacrifica (seppur parzialmente) le priorità di salute pubblica pur di tutelare l’economia (e le finanze pubbliche). In Italia, al contrario, il governo è stato addirittura tacciato di ammazzare l’economia nel tentativo di tutelare la salute dei cittadini.

Il presunto dilemma fra salute ed economia. Ma esiste davvero un dualismo tra salute ed economia? È vero che i paesi i cui sistemi sanitari hanno retto meglio l’urto del virus hanno anche subito perdite economiche più significative, mentre chi ha contenuto i costi economici ha sofferto di più dal punto di vista sanitario?

Per rispondere a questi interrogativi, abbiamo esaminato l’andamento delle economie europee nel 2020 in termini di variazioni percentuali del prodotto interno lordo (Pil) rispetto al 2019 e di quello che si definisce “eccesso di mortalità”. In epidemiologia, con questo concetto si intende il numero di deceduti registrato durante una crisi al di sopra di quello che ci si aspetterebbe di vedere in condizioni normali (cioè al di sopra della media annuale di chi muore di vecchiaia o per le normali patologie). È una variabile che ben sia addice a misurare la tenuta del sistema sanitario visto che, in ultima analisi, l’obbiettivo principale della sanità pubblica è quello di ridurre al minimo la mortalità.

Il nostro indicatore di mortalità in eccesso è il cosiddetto P-score definito come la differenza in termini percentuali tra il numero di morti registrato in una certa settimana del 2020 e il numero medio di morti rilevato nella stessa settimana nel corso degli ultimi cinque anni (l’indicatore è pubblicato da Our World in Data). La fonte dei dati grezzi sulla mortalità è invece Eurostat.

L’eccesso di mortalità rappresenta una misura più precisa dell’impatto della pandemia sui decessi rispetto al semplice conteggio dei morti da Covid-19 ufficialmente confermati. Oltre ai decessi confermati, infatti, l’eccesso di mortalità cattura quelli attribuibili al coronavirus che non sono stati correttamente diagnosticati e segnalati, nonché i decessi dovuti ad altre cause ma comunque riconducibili alla condizione di crisi (ad esempio, la minore disponibilità di personale medico-sanitario per patologie diverse dal Covid-19).

Vincitori e vinti. I dati che presentiamo nella figura 1 ci mostrano come, contrariamente all’ipotesi di un trade-off tra gli obbiettivi economici e quelli sanitari, fra le stime sulla variazione del Pil e quelle sulla mortalità in eccesso esista in realtà una chiara correlazione negativa. I paesi che vivono recessioni economiche più gravi – come Spagna, Italia e Regno Unito – sono anche tra i paesi con la più alta mortalità in eccesso. Ed è vero anche il contrario: i paesi in cui l’impatto economico è stato relativamente modesto – come Austria, Danimarca e Germania – sono anche riusciti a tenere sotto controllo la mortalità. Fra salute ed economia sembrerebbe dunque esistere una certa complementarietà.

I paesi dell’Europa meridionale sembrano pagare in misura maggiore rispetto a quelli nordici il contenimento della mortalità in termini di prodotto interno lordo. Il perché potrebbe essere legato alla struttura economica che caratterizza i paesi mediterranei, dove i servizi – in particolare il turismo – hanno un ruolo più rilevante e dove dunque l’impatto dei ripetuti lockdown è stato maggiore. Ma potrebbe anche essere legato a questioni culturali, che potrebbero spiegare perché misure di contenimento molto simili abbiano avuto effetti diversi.

Infine, per affrontare le conseguenze economiche della pandemia, i paesi europei hanno tutti adottato misure fiscali eccezionali basate nella maggior parte dei casi sull’emissione di debito per finanziare programmi a sostegno di lavoratori e aziende (come cassa integrazione temporanea, garanzie sui prestiti bancari e così via). I paesi con bilanci pubblici più fragili, e gravati da un volume di debito maggiore, hanno potuto godere di minori margini di manovra e hanno dunque varato programmi di entità in generale più contenuta, rivelatisi tendenzialmente meno efficaci. (lavoce-Neha Deopa e Piergiuseppe Fortunato)