DISCONTINUITA’ E CONTINUITA’ NEL GOVERNO CONTI BIS

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Il governo Conte bis nasce con lo stesso primo ministro, qualche egoismo e tante novità. Dà più garanzie all’Europa, rimette la politica in via XX Settembre e riporta terzietà al Viminale. Ma le discontinuità saranno positive solo se diventeranno idee concrete di programma da realizzare.

Discontinuità, la nuova parola d’ordine

Quando sono partite le trattative per la formazione di un nuovo governo fondato sull’alleanza M5s-Pd, il segretario dei democratici Nicola Zingaretti ha subito fissato i paletti indicando come precondizione che il nuovo governo si caratterizzasse per la discontinuità con l’esecutivo precedente. Anche per i cinquestelle c’era un’esigenza analoga: andava bene ragionare di un accordo con il Pd purché non apparisse come una risurrezione degli odiati governi Renzi e Gentiloni (e precedenti).

Dopo due settimane di negoziati, è arrivato il nuovo governo, il “Conte bis”, formato da una lista di 21 ministri. La prima non discontinuità del nuovo esecutivo riguarda proprio la persona del presidente del Consiglio, Giuseppe Conte. Il Conte che succede a se stesso e guiderà il “Conte bis” è però quello dei contenuti indicati nel suo discorso di commiato (o di auto-investitura futura) del 20 agosto in Senato, non l’avvocato garante del contratto tra diversi siglato quindici mesi fa da Lega e M5s. In quell’intervento al Senato, il premier si è tolto molti sassolini dalle scarpe nei confronti del “suo” ministro dell’Interno e vicepremier Matteo Salvini, gettando le basi per una sua ricandidatura a capo di una nuova maggioranza. “Old wine in new bottles”, dice un proverbio inglese, non fa molta differenza. Ma le parole e gli impegni del “nuovo” Conte sono stati sufficienti a far inghiottire ai democratici l’amaro boccone della non discontinuità alla testa del governo.

Esteri ed Europa, più garanzie malgrado Di Maio

Scorrendo la lista dei ministri, a cominciare dai dicasteri più importanti, le discontinuità si vedono. Il capo politico del M5s Luigi Di Maio va agli Esteri, al posto di un ministro di garanzia come Enzo Moavero Milanesi. Affidare la Farnesina a un a un esponente di punta di un movimento come i cinquestelle che hanno spesso formulato posizioni ondivaghe in politica estera può sembrare un azzardo. Ma – altra discontinuità – almeno la collocazione europea dell’Italia dovrebbe essere tutelata dalla presenza di Roberto Gualtieri all’Economia e di Vincenzo Amendola agli Affari europei – politici democratici con una solida esperienza di lavoro sui dossier dell’Europa – e con l’ulteriore tassello della indicazione dell’ex-premier Paolo Gentiloni a commissario europeo. In ogni caso, specialmente in un mondo globale, la politica estera la fanno i primi ministri, non i ministri degli Esteri. È dunque facile che sia Conte a dettare la linea sulla politica estera dell’Italia, mettendo gradualmente in soffitta il folklore barricadero dei cinquestelle. E con una squadra estera così composta, è anche legittimo attendersi che le nuove (eventuali ma probabili) richieste di flessibilità di bilancio saranno strutturate e istruite senza i tanti strappi e scossoni che hanno caratterizzato l’esecutivo precedente, anche approfittando della nuova aria che tira sia alla Commissione di Ursula von der Leyen che alla Banca centrale europea di Christine Lagarde.

La politica in via XX Settembre, le infrastrutture al Pd e nuovi nomi M5s alle politiche sociali

Un mix di continuità e discontinuità riguarda anche i ministeri economici e sociali. Con Gualtieri torna un politico all’Economia. Può essere una buona cosa, se non altro perché la storia degli ultimi dieci anni ha mostrato che la spending review non la può fare un tecnico: per quanto bravo, un tecnico può solo stilare una lista di cose da fare, ma poi è la politica (che deve prendere i voti) che se ne deve far carico, fissando priorità e spiegandole all’elettorato. Se no, non si va da nessuna parte. Il rischio è che la coalizione giallorossa produca tendenze che vanno in tutt’altra direzione, cioè verso un aumento della spesa pubblica. Ma se ciò avverrà, meglio che ci sia un politico a prendersene la responsabilità, anziché un tecnico a fare da comodo parafulmine. Sempre sull’economia, al Pd sono andate Infrastrutture e Trasporti. La nomina di Paola De Micheli – che sarebbe stata meglio impiegata allo Sviluppo economico o all’Agricoltura – offre alle aziende un’implicita garanzia di correzione di rotta rispetto all’entusiasmo inconcludente e dannoso dell’era Toninelli. Cambi in vista anche ai ministeri dello Sviluppo economico e del Lavoro, rimasti al M5s. Forse, spostato Di Maio ad altro incarico, i nuovi ministri – l’ingegner Stefano Patuanelli e la formatrice Nunzia Catalfo – potranno apportare nei rispettivi ruoli le correzioni necessarie alla politica industriale caotica del precedente governo e gli aggiustamenti opportuni per migliorare i risultati sul mercato del lavoro del reddito di cittadinanza. Se invece il capo politico dei cinquestelle continuerà a far pesare la sua linea di discrezionali atteggiamenti anti-impresa, per crescita e lavoro saranno dolori.

Una tecnica agli Interni e tornano pari opportunità e innovazione

Infine, ma certo non ultime in ordine di importanza, ci sono due discontinuità che riguardano la cruciale area dei diritti individuali e civili. Avere una ex prefetto (Luciana Lamorgese) al posto di un ministro che bollava come “zecche dei centri sociali” chi lo contestava nei comizi ristabilirà al Viminale quella posizione di maggiore terzietà necessaria al sereno svolgimento dei delicati e difficili compiti del ministero dell’Interno, prima di tutto in tema di controllo dei flussi e accoglienza degli immigrati. E poi ci sono altri due graditi ritorni. Al riesumato ministero dell’Innovazione è stata opportunamente destinata un’altra new entry – Paola Pisano – che ricopriva lo stesso ruolo nella giunta torinese di Chiara Appendino. E il ritorno del ministero delle Pari opportunità e della Famiglia potrà far ricominciare la strada di affermazione dei diritti individuali e sociali di tutti (non solo delle maggioranze, ma anche delle minoranze) che era stata interrotta con la presentazione del decreto Pillon – mai approvato – e con la peraltro largamente inconcludente reggenza del ministero della Famiglia da parte del ministro Lorenzo Fontana e – per un periodo più breve – di Alessandra Locatelli.

Nel complesso, nel governo Conte bis le discontinuità ci sono e in quantità e qualità sufficienti da soddisfare i due principali azionisti della coalizione, cioè Luigi Di Maio e Nicola Zingaretti. Se le discontinuità realizzate saranno davvero efficaci e gradite ai veri destinatari, cioè i cittadini-elettori, dipenderà largamente dal programma dell’esecutivo, di cui per il momento si conoscono solo generiche linee programmatiche sostanziate in una lista di 26 punti che dovranno diventare rapidamente idee concrete. (lavoce)

Francesco Daveri