COSA PENSANO GLI ITALIANI DEL NOSTRO SISTEMA SANITARIO

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La sanità, come ci dicono i sondaggi di opinione e le ormai frequenti inchieste giornalistiche sul tema, è una questione centrale per i cittadini. Ma quali sono nello specifico le percezioni degli italiani sul nostro sistema sanitario? Dati alla mano, sulla base della griglia Livelli Essenziali di Assistenza (LEA) nel 2019 solo due Regioni (Calabria e Molise) risultavano inadempienti sul fronte sanitario, ma ovunque o quasi l’opinione dei cittadini appare ben diversa, con un giudizio fortemente negativo sui servizi che ricevono o ai quali non riescono ad accedere.

A confermarlo ci sono i dati della European Health Interview Survey (EHIS), l’Indagine europea sulla salute condotta sulla base di interviste ai cittadini per misurare come percepiscano lo stato di salute (inclusa la disabilità), i determinanti della salute sillo stile di vita, l’uso dei servizi di assistenza sanitaria e le limitazioni nell’accedervi. L’ultima EHIS è stata condotta nel 2019 su base campionaria e con un questionario assai articolato che in Italia è stato somministrato da ISTAT1. Nel complesso sono state intervistate circa 22.800 famiglie residenti in 835 Comuni di diversa ampiezza demografica distribuiti su tutto il territorio nazionale2; i risultati derivano da risposte dei diversi soggetti intervistati e sono quindi riflettono la loro percezione soggettiva influenzata dal background sociale e culturale3.

In una serie di ampi articoli pubblicati su SenzaEtà e SoloRiformisti4 sono stati messi a confronto i risultati dell’indagine svolta in Italia relativamente al ricorso ai servizi della sanità, quali medico di famiglia, medico specialista, esami diagnostici e di laboratorio, ricoveri ospedalieri, e delle difficoltà incontrate per accedervi in termini di liste di attesa, trasporti, costo nelle 8 maggiori Regioni a statuto ordinario. Di seguito se ne propone una sintesi limitata alle diverse performance territoriali, rinviando ai citati articoli per chi fosse interessato a risultati più di dettaglio, soprattutto per classe di età e sesso. Con tale contributo speriamo di contribuire ad alimentare un dibattitto che, per la sua importanza presente e futura, richiede una conoscenza il più possibile approfondita di dati e dinamiche in atto.

Il ricorso ai servizi sanitari

Sulla base dei risultati delle interviste EHIS, è stato stimato il numero di residenti che hanno fatto ricorso ai servizi sanitari sopra citati nei 12 mesi precedenti l’intervista5. Dei 50 milioni di italiani con più di 15 anni che rappresentano l’universo indagato, son stati circa 40 milioni quelli che si sono rivolti al medico di famiglia, quasi 28 quelli che hanno fatto una visita con un medico specialista mentre arrivano a 21 milioni coloro che hanno fatto ricorso a esami specialistici ed accertamenti diagnostici.

Tabella 1.

 Persone di 15 anni e più che hanno fatto ricorso nei 12 mesi precedenti l’intervista ai servizi sanitari Anno 2019 (quozienti standardizzati per 100 persone).

A livello territoriale (Tabella 1) le differenziazioni risultano ridotte per il ricorso al medico di famiglia, pari al 76% a livello nazionale: si registra un picco dell’81,4% in Emilia-Romagna ed il minimo del 70,9% in Campania, con la Puglia pure al di sotto della media nazionale (74,2%). Le disparità tra regioni, limitate nel caso del medico di famiglia, crescono per le visite specialistiche tra l’Emilia-Romagna al 60,3% e la Campania al 44,6%, con la Puglia (47,6%) sempre al di sotto della media nazionale (52,9%). Non cambia la situazione per gli esami specialistici e strumentali dove il differenziale cresce ancora tra l’Emilia-Romagna dove vi ha fatto ricorso il 46,9% della popolazione contro il 29,9% della Campania, mentre Puglia 32,8% e Lazio (36,8%) si posizionano al di sotto della media nazionale del 39,1%.

Emerge chiaramente come nelle regioni meridionali si vada meno dal medico specialista e ci si sottoponga meno ad esami clinici e strumentali: resta da comprendere se dipenda da una minore incidenza di patologie legate, ad esempio, a fattori ambientali o se dipenda da strozzature nell’offerta che, attraverso le liste di attesa o difficoltà di trasporto, rendono più difficile l’accesso, o dalle rinunce a queste prestazioni a causa del loro costo.

Secondo EHIS, sono state poco più di 4 milioni (7,6% del campione) le persone con almeno un ricovero in ospedale, per un totale di 40,2 milioni di notti di ricovero, pari a 9,8 notti di ricovero per persona ricoverata: il 45% dei ricoveri è di over 65 che contano per oltre il 60% del totale delle notti di ricovero. Una incidenza dei ricoveri al di sotto della media nazionale si registra in Puglia (5,8%) e Toscana (6,7%) mentre il valore più alto si riscontra in Lombardia (8,9%). In Lombardia si ha una più lunga degenza media (10,1 notti) mentre in Toscana i ricoveri durano di meno (6,7 notti).

In generale i dati mostrano che c’è un maggior ricorso alla sanità, e in particolare alle visite specialistiche ed esami, da parte delle donne, motivate dalla particolare attenzione al proprio benessere fisico nelle varie fasi della vita (gravidanza, menopausa, screening periodici di controllo).

Prestazioni in ritardo o rinunce per liste di attesa, difficoltà di trasporto e motivi economici

L’impossibilità di prenotare visite ed esami specialistici in tempi ragionevoli è una delle questioni che infiamma il dibattito sulla sanità in Italia ed è considerata la prova regina delle condizioni di degrado del sistema sanitario italiano, un male oscuro peculiare che mina il diritto d’accesso alle cure. Nel nostro Paese sono oltre 7 milioni le persone, circa un quarto (24,9%) di quelle cui sono state prescritte prestazioni sanitarie (visite mediche, analisi cliniche, accertamenti diagnostici, ecc.), che non hanno potuto effettuarle o le hanno effettuate in ritardo a causa delle liste di attesa (tabella 2). Queste crescono, seguendo un gradiente Nord-Sud, dal 14,8% dell’Emilia-Romagna al 31,9% della Puglia: fa eccezione Lombardia che con il 25,5% si colloca al di sopra della media nazionale, quasi allo stesso livello della Campania (25,6%).

Ad allungare le liste d’attesa contribuisce in maniera rilevante la c. d. “medicina difensiva” che include tutte le prestazioni sanitarie prescritte dai medici per prevenire il rischio di cause legali da parte di pazienti (o loro parenti) per negligenza o ‘malasanità’ che dir si voglia6. In una seppure non recentissima ricerca condotta a livello nazionale nel 2010 risultava che circa tre quarti dei medici dichiaravano di prescrivere, per ragioni di medicina difensiva, il 21% delle visite specialistiche, il 21% degli esami di laboratorio ed il 22,6% degli esami strumentali. Più recentemente il Ministero della salute per mezzo si AGENAS stimava un impatto economico della medicina difensiva pari al 10,5% della spesa sanitaria, con una incidenza del 25% della spesa per esami strumentali, del 23% della spesa per esami di laboratorio, dell’11% per la spesa per visite specialistiche nel 2014.

Non sono solo le liste di attesa a provocare ritardi e rinunce a prestazioni sanitarie da parte dei cittadini: pesano anche i problemi di trasporto legati sia alla distribuzione territoriale dell’utenza sia a un sistema dei trasporti che rende difficoltosi gli spostamenti per fruire di queste prestazioni per oltre 2,3 milioni di persone (8,4%). Una percentuale che pone l’Italia al penultimo posto della graduatoria OCSE, tra Croazia e Turchia. Anche per le difficoltà di trasporto emergono rilevanti disparità territoriali: penalizzato è soprattutto il Centro-Sud dove le persone che sono coinvolte arrivano a contare per il 14,3% in Campania, per il 13,3% nel Lazio ed il 12,7% in Puglia mentre a Nord la quota oscilla tra il 2,8% del Veneto ed il 6,3% del Piemonte, percentuale che in Toscana sale fino al 7,1%.

Tabella 2. Persone di 15 anni e più che nei 12 mesi precedenti l’intervista a) hanno effettuato prestazioni sanitarie in ritardo o non le hanno effettuate per problemi di liste di attesa o di mezzi di trasporto, su totale persone con prescrizioni – b) non hanno effettuato prestazioni sanitarie per problemi economici su totale persone oltre 15 anni. Anno 2019.

A rinunciare del tutto a visite specialistiche ed esami diagnostici a causa della impossibilità di sostenerne il costo sono state quasi 2,6 milioni di persone pari al 4,8% del totale della popolazione di 15 e più anni: ancora sono le donne (6,3%) le più penalizzate rispetto agli uomini (3,6%) In termini di incidenza rispetto alla media nazionale, è sicuramente più diffuso questo ostacolo nelle regioni centro meridionali, con la Campania al 7,4%, il Lazio al 6,5% e la Puglia al 5,5%

Occorre notare che, come riporta un articolo su SenzaEta basato su dati di Eurostat relativi ai 10 maggiori Paesi dell’Europa mediterranea e centrale (appartenenti sia al modello universalistico che a quello mutualistico), quello italiano non è un caso isolato ma è comune a gran parte dei Paesi più popolosi, indipendentemente dal modello adottato. Un male comune che, tuttavia, occorre affrontare adeguatamente.

Tra pubblico e privato: la scelta, il costo, le motivazioni

Delle 27,9 milioni di persone che, nel periodo considerato, si sono rivolte al medico specialista, oltre il 59,6% ha usufruito di prestazioni in strutture pubbliche o private convenzionate mentre il 40,4% si è rivolto a strutture private. Su 17,7 milioni di persone che hanno effettuato esami, più del 75% li ha fatti in strutture pubbliche o private convenzionate mentre è del 24,4% la quota delle persone che si rivolgono a strutture private.

Sia per le visite che per gli esami specialistici il ricorso al privato è inferiore nelle regioni settentrionali mentre nelle regioni centromeridionali (alle quali si allinea la Toscana) è decisamente superiore, fino ai picchi del 49,2% in Puglia per le visite specialistiche e del 34,7% per gli esami nel Lazio. Tra tutte spicca il dato dell’Emilia-Romagna dove fa ricorso al privato solo il 32,6% per le visite ed il 16,2% per gli esami.

Anche per la quota di persone che hanno pagato interamente le visite, in un panorama meno differenziato territorialmente, emerge il dato decisamente migliore dell’Emilia-Romagna, con il 34,1% che ha pagato integralmente le visite contro il 42,7% medio nazionale. Per il pagamento integrale degli esami rispunta una forte differenziazione territoriale: a fronte del 29,0% medio nazionale, nel Lazio si arriva al 39,6% seguito da Puglia (37,2%) e Toscana (33,1%) mentre In Emilia-Romagna si ferma al 18,6%.

Tabella 3. Visite ed esami specialistici: ricorso al privato, pagamento e motivazioni per scelta pubblico privato da EHIS- Anno 2019.

Quali sono le motivazioni che determinano la scelta tra struttura pubblica/privata convenzionata e struttura privata? Come riportato in tabella 3, l’analisi si è concentrata su visite specialistiche ed esami, primi due fattori indicati a livello nazionale, consapevoli che a livello territoriale può esservi un mix7che presenta sottolineature diverse.

Per le visite specialistiche a guidare la scelta verso la struttura pubblica come primo fattore è la prossimità (27,7%); questa è particolarmente rilevante ad esempio in Puglia (31,9%) ed Emilia-Romagna (31,4%). Il secondo fattore è invece la fiducia nella struttura (24,4%); esso è più influente in Lombardia (27,2%) e Lazio (26,2%) mentre pesa decisamente meno in Puglia (16,8%). La fiducia nella struttura è invece decisamente il primo fattore che indirizza verso la struttura privata (34,3%) arrivando a contare per il 39,9% in Veneto e per il 37,6% in Campania, al minimo in Toscana col 27,5% in Toscana. Il secondo fattore è invece costituito dai tempi di attesa troppo lunghi nelle strutture pubbliche o convenzionate: muove il 29,2% delle persone, arrivando al 34,1% in Puglia ed al 33,9% in Toscana mentre non pesa più del 22% in Emilia-Romagna e Veneto.

Per gli esami ad indirizzare verso le strutture pubbliche è prima di tutto la fiducia (35,9%), in particolare in Campania (40,8%) e Lazio (37,9%), fattore che incide invece di meno in Toscana (31,9%). Il secondo motivo per cui si ricorre a struttura pubblica è il costo: conta per il 24,5% a livello nazionale, con il nord su valori decisamente inferiori, mentre sposta una quota di persone significativamente più rilevante in Puglia (36,0%) e Toscana (32,2%). A indirizzare verso le strutture private è anche il fattore tempo: troppo lunga l’attesa per accedere alle strutture pubbliche o convenzionale per il 39,1% degli italiani, che arriva a contare oltre il 47% in Toscana e Puglia mentre appare meno influente in Campania (29,9%, al di sotto del Veneto ed Emilia-Romagna (attorno al 33%). Il secondo fattore che fa optare per il privato è ancora la fiducia (33,3%): decisamente più alta la sua spinta in Emilia-Romagna (38,0%) mentre assai inferiore appare in Toscana (28,5%).

Il giudizio sulle prestazioni sanitarie di cui si è usufruito

L’indagine EHIS chiede agli intervistati anche di esprime un giudizio sulla qualità della ultima visita passata presso il medico di famiglia o lo specialista: per integrare queste due valutazioni con quella sulla qualità della cura durante il ricovero in ospedale si è fatto qui ricorso ai dati rilevati da ISTAT con la Indagine Multiscopo sugli aspetti della vita quotidiana, nella quale è ricompresa una sezione riservata alle persone di 6 anni e più con almeno un ricovero nei 3 mesi precedenti l’intervista, cui è chiesto di esprimere un giudizio sui vari aspetti del ricovero (assistenza medica, infermieristica, vitto, servizi). Con le necessarie cautele per la diversa ampiezza della popolazione di riferimento, si è considerata la somma di chi si è dichiarato molto soddisfatto ed abbastanza soddisfatto rispetto all’assistenza medica (cui peraltro sono allineati quelli sull’assistenza infermieristica) per l’anno 2019.

Il 77,6% delle persone esprime un giudizio positivo sulla qualità dell’ultima visita presso il medico di famiglia, una percentuale che cresce oltre l’80% in Toscana (80,6%) e in Piemonte (80,4%), mentre meno soddisfatti si dimostrano i pazienti in Campania, dove i giudizi positivi si fermano al 70,1%. la quota più bassa di apprezzamento (70,1%) si ha in Campania. L’apprezzamento per la visita presso lo specialista si ferma al 70,0% a livello nazionale: non esistono significative disparità tra le regioni, eccezion fatta per la Campania, di nuovo, dove i soddisfatti sono soltanto il 62,7%.

Tabella 4. Persone di 15 anni che hanno fatto ricorso ai servizi sanitari nei 12 mesi precedenti l’intervista per giudizio sulla qualità delle prestazioni Anno 2019 (quozienti standardizzati per 100 persone) per Ospedali su ricoverati ultimi tre mesi Fonte SILC ISTAT mesi popolazione da 0 anni. Anno 2019.

Nota: Per l’assistenza medica e l’assistenza infermieristica durante i ricoveri in ospedale la percentuale di persone8che si dichiarano soddisfatte è dell’87,6%, mentre per il vitto è di poco al di sopra del 70%: in ospedale in generale si mangia male e non è esaltante il giudizio sui servizi igienici, dove i soddisfatti sono poco più dell’80%.

Tra le regioni, il giudizio positivo è particolarmente alto in Toscana (92,1%) e Lazio (90,8%) mentre i valori più bassi si hanno, a sorpresa, in Emilia-Romagna (83,4%), Campania (86,0%) e Puglia (86,2%).

Prospettive di sviluppo, guardando all’esperienza del secondo welfare

Queto viaggio attraverso i dati relativi all’Italia della EHIS nella sostanza conferma la classifica dei punteggi LEA ottenuti dalle diverse regioni nello stesso anno, il 2019, e riflettono l’immagine di un Paese nel quale esistono, nel concreto, tre diverse sanità: una di discreto livello nelle regioni del Nord, la seconda appena sufficiente nel Centro e la terza decisamente inadeguata nel Meridione e nelle Isole. Conferma questo quadro la misurazione della soddisfazione dei cittadini anche un sondaggio dell’Istituto Gallupp per il quale la percentuale di cittadini soddisfatti della sanità è ferma al 37% nel Meridione e nelle Isole, sale nelle regioni del centro al 51% per arrivare al 62% delle regioni nel Nordovest e del Nordest.

Per cambiare questa realtà fatta di molte lamentele – dalle liste di attesa alla crisi e dei pronto soccorso, dalla mancanza di medici di famiglia alla insufficienza della medicina del territorio – l’unica cura che viene proposta avanzata a gran voce da una amplissima platea di rappresentanza dei cittadini è: più soldi alla sanità. Non si può negare che le disparità nelle performance della sanità fra le regioni nascano anche da un finanziamento che, basato sulla spesa storica, ha penalizzato soprattutto, ma non solo, le regioni meridionali, ma non si può ignorare che c’è anche un grande problema di efficiente impiego delle risorse assegnate.

In un contesto segnato da gravi problemi di tenuta dei conti pubblici, si impone prima di tutto di spendere meglio intervenendo per rimuovere sprechi e inefficienze. Come ha scritto Maurizio Ferrera sul Corriere della Sera “i livelli essenziali vanno definiti non solo nel contenuto, ma anche nei loro costi standard. Solo così sarà possibile quantificare le risorse che lo Stato deve garantire a ciascuna regione, a seconda del fabbisogno” aggiungendo che, per questo, serve un sistema di monitoraggio basato sugli output che tenga conto non solo della spesa ma anche delle effettive prestazioni e, possibilmente, della loro qualità. Su questa linea si muove anche la Presidente del Consiglio Giorgi Meloni che, intervenendo al Festival delle Regioni a Torino, ha dichiarato “un sistema sanitario efficace è l’obiettivo di tutti, ma sarebbe miope concentrare tutta la discussione sull’aumento delle risorse. Bisogna avere un approccio più profondo anche su come le risorse vengono spese. Non basta necessariamente spendere di più per risolvere i problemi se poi le risorse vengono usate in modo inefficiente”. Non si può, in sostanza, versare acqua in un secchio bucato e poi lamentarsi perché questo non si riempie.

Perché alle parole seguano i fatti è però necessario che l’assegnazione di nuove risorse alle regioni, in un’ottica pluriennale, sia condizionata al recupero di efficienza ed efficacia della spesa che le porti tutte a livello delle regioni best performer. Un recupero da certificare non con autodichiarazioni ma tramite certificazione affidata a soggetto terzo indipendente, oltre a quello che è il controllo affidato alla Corte dei Conti.

Che non sia solo una questione di risorse ce lo dice la stessa indagine Gallupp quando evidenzia come, a parità di spesa pro capite, la soddisfazione per la sanità in Italia (51%) è inferiore a quella registrata Spagna (68%). Possono esserci minori aspettative da parte dei cittadini (anche perché non tutti i sistemi sanitari promettono lo stesso spettro di prestazioni) ma sicuramente meriterebbero una analisi ravvicinata la diversa organizzazione e i modelli di gestione tra i due sistemi sanitari, entrambi universalistici che producono risultati così differenziati.

Di riformare il sistema del welfare si parla da anni ma sulla sanità gli interventi, compresa la nascita del Servizio Sanitario Nazionale, si fanno solo quando si arriva al tracollo finanziario. Oggi siamo in un sorta di “Momento di Minsky” per la finanza pubblica italiana e sarebbe quindi il momento giusto per metter mano all’impalcatura del sistema nel suo complesso, dando piena attuazione del principio costituzionale di sussidiarietà, così ignorato e trascurato nei fatti che merita riportarne il testo della Carta10.

In questo nuovo modello lo Stato manterrebbe un ruolo centrale, non più come erogatore, ma come regolatore, coordinatore e garante dei livelli di assistenza, in un modello integrato in cui cooperano pubblico, privato convenzionato e non, assieme al volontariato, associazioni e fondazioni raccolte nel generale contenitore del Terzo settore. Al pubblic, secondo i modelli misti prevalenti in Europa, resterebbero le cure di alta complessità e gli interventi nelle aree più fragili, dove convivono elementi di fallimento del mercato e di debolezza del Terzo Settore.

In tale quadro il Terzo Settore non dovrà cedere alla tentazione di essere esso stesso assistito – se non mantenuto – dallo Stato, ma dovrà ripensarsi continuamente, sulla base di criteri di innovazione, efficienza e efficacia per esercitare a loro volta attività di assistenza. Come dimostra l’esperienza del secondo welfare degli ultimi anni questo non è impossibile. Ma perché accada occorre, in prima battuta, che sia data compiuta attuazione al Codice del Terzo Settore del 2017 per la necessaria certezza normativa indispensabile per programmare le attività nel tempo. E questo posiamo forse dire che, se si fossero coinvolto il privato profit e non profit nella elaborazione del PNRR per quanto riguarda ospedali di comunità e case della salute avremmo avuto progetti attivabili in tempi brevi mediante rafforzamento, integrazione e specializzazione di strutture di cura ed assistenza già presenti sul territorio sulle quali si sarebbe innestata innestare la rete di servizi professionali in grado di assicurare la prossimità ai pazienti, che soprattutto nelle regioni del meridione come abbiamo visto evidenziano difficoltà a spostarsi che aumenteranno per concentrazione di servizi, oltretutto senza le dotazioni di personale adeguato.

Troppo privato, profit e non profit, in questo disegno? A chi avversava le sue riforme Deng Xiaoping rispondeva “non importa se un gatto è bianco o nero, importante è che prenda i topi”. (secondowelfare)