Dopo due anni di pandemia, il quadro normativo dovrebbe essere più chiaro e definito. Invece, l’impennata dei contagi ha rimesso in fibrillazione tutto il sistema istituzionale. Come dimostra il conflitto tra istituzioni sulla riapertura delle scuole.
La normativa. A volte è proprio vero, il diavolo fa le pentole ma non i coperchi. Nei giorni scorsi, non si riusciva a comprendere perché il ministro della Pubblica istruzione Bianchi continuasse a sostenere che le scuole devono rimanere aperte e che si può derogare alla regola solo nei territori dichiarati “zona rossa”, mentre l’assessore regionale di riferimento in Sicilia La Galla affermava che la sospensione, totale o parziale, delle attività didattiche può essere disposta solo con una classificazione del rischio in “zona arancione” o in “zona rossa”. Il dubbio è diventato un cruccio, per poi trasformarsi in un vero e proprio rebus: leggendo l’articolo 2 dell’ordinanza del presidente della Regione Siciliana, che abilita i sindaci a sospendere le attività didattiche, con conseguente adozione della Dad, esclusivamente in quei territori dichiarati “zona rossa” o “zona arancione”, nonché alcune ordinanze dei sindaci che, richiamando espressamente lo stesso articolo 2, hanno disposto la sospensione della didattica in presenza chiedendo di ricorrere alla Dad. La domanda è sorta spontanea. La deroga alle attività didattiche in presenza (Dad) prevista dal legislatore è applicabile solo in quei territori che si trovano in “zona rossa” o anche in quelli che si trovano in “zona arancione”? Ecco che qui entra in campo “il diavolo” (di cui sopra), capace di prevedere entrambe le zone all’articolo 1, comma 4, del decreto legge n. 111 del 6/8/2021 per poi fare sparire la “zona arancione” in sede di conversione del decreto nella legge n. 133 del 24/9/2021.
Ora, mentre non è discutibile la legittimità dell’ordinanza n. 7 del 7/1/2022 con la quale il presidente della Regione ha colorato di arancione decine di comuni in tutta la Sicilia per ovvi e preoccupanti dati riferiti alla contagiosità del Covid, nutriamo seri dubbi in ordine alla legittimità delle ordinanze, adottate a cascata, con le quali i sindaci siciliani hanno disposto la sospensione dell’attività didattica in presenza nei rispettivi comuni dichiarati “zona arancione”, a nulla rilevando che a porgere “la pentola senza coperchio” sia stato il presidente della Regione.
I dati dell’Ufficio scolastico regionale. Alla ripresa dell’attività scolastica, gli alunni assenti per positività da Covid-19 non hanno superato il 5 per cento. Il dato emerge dal monitoraggio effettuato dall’Ufficio scolastico regionale dopo avere censito 706 istituzioni scolastiche, pari all’86 per cento del totale: su 391 comuni della Sicilia, 161 hanno emanato ordinanze sindacali di sospensione delle attività didattiche, mentre i restanti hanno regolarmente avviato le attività didattiche in presenza. Tra le 548 scuole dei comuni dell’isola in cui sono stati adottati provvedimenti di chiusura, 513 (per una popolazione di 434.237 studenti) hanno attivato la didattica a distanza, mentre 35 (per una popolazione di 28.912 studenti) non hanno svolto lezioni.
Lo “stato di diritto”. Anche se è ormai chiaro che la materia emergenziale sia di esclusiva competenza dello Stato e che, per espressa previsione di legge, la regola della didattica in presenza può essere derogata dai Sindaci solo nei comuni dichiarati “zona rossa”, ben 161 comuni della Sicilia su 391 hanno ordinato la ripresa dell’attività didattica a distanza (Dad) pur non rientrando, salvo sparute eccezioni, in “zona rossa”. Ma vi è di più, nonostante la giustizia amministrativa abbia dichiarato illegittime le ordinanze, nell’ordine, del presidente della Regione Campania, dei sindaci di Messina, Palermo e Agrigento con motivazioni “fotocopia”, ancora oggi i sindaci si ostinano a mantenere in vita le proprie ordinanze.
Questa condotta, oltre a profilare l’ipotesi più grave dell’interruzione di pubblico servizio sanzionata penalmente, sta generando un vulnus nei confronti dello “stato di diritto”.
Andrebbe ricordato ai sindaci che la fascia tricolore indossata è un simbolo di cui andare fieri solo nella misura in cui si dimostri di essere molto più “fedeli alla Repubblica” di quanto lo possano essere i singoli cittadini amministrati. In un contesto di questo tipo, che arieggia la fattispecie dell’anarchia istituzionale, diventa pretestuoso chiedere ai propri cittadini il “rispetto delle regole”. (lavoce)