COME ANDARE OLTRE IL 3 PER CENTO SENZA SCASSARE I CONTI

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Si avvicina la fine dell’estate e dei proclami spacconi sul tramonto dell’euro. Per ora nel disegnare la legge di bilancio bisogna fare i conti – è il caso di dirlo – con le regole esistenti. Per questo non passa giorno senza che qualche esponente della coalizione Lega-M5s si esprima contro il tetto del deficit al 3 per cento. Ha cominciato il sottosegretario leghista alla presidenza del Consiglio Giancarlo Giorgetti. Gli ha fatto eco il presidente della commissione Finanze del Senato Alberto Bagnai. Infine si è aggiunto il capo politico dell’altra costola della coalizione gialloverde Luigi Di Maio. Tutti contro una soglia definita “sbagliata” (Di Maio) o “priva di valore scientifico” (Bagnai).

In effetti su una cosa i critici del 3 per cento hanno ragione. In nessun libro di economia si trova spiegato il perché della fissazione di quel tetto proprio a 3: perché 3 e non 2 o 4, nessuno lo sa. L’unica soglia sensata da imporre sul deficit potrebbe essere lo zero. Tale regola corrisponderebbe a una regola da buon padre di famiglia: uno stato che fa fronte ai suoi programmi di spesa con risorse proprie dovrebbe mantenere il deficit pubblico sempre uguale a zero. Uno stato che non si indebita è libero da possibili influenze straniere nella conduzione della propria politica. E uno stato che non si indebita tratta allo stesso modo le generazioni di oggi e quelle future che altrimenti sarebbero chiamate a rimborsare il debito pubblico senza essere mai state coinvolte nella decisione se indebitarsi o no dai loro genitori o nonni.

Malgrado una sua certa dirittura etica, una regola del deficit sempre uguale a zero è però soggetta a molte critiche legittime. La prima critica è che a seconda di come va l’economia il deficit sale e scende in automatico. Quando il Pil va male scendono automaticamente le entrate fiscali – perché diminuisce la base imponibile – e sale la spesa sociale necessaria per assistere i disoccupati e le famiglie povere – in aumento negli anni di vacche magre. Imporre ai governi di tenere in equilibrio i conti anche durante una recessione sarebbe stupido e anche controproducente: per eliminare il deficit “automatico” bisognerebbe ridurre la spesa pubblica o aumentare le aliquote di imposta, il che addirittura peggiorerebbe la recessione, riducendo tra l’altro l’efficacia delle misure di correzione del deficit. È proprio quello che è avvenuto in molti paesi europei tra il 2011 e il 2012 durante la crisi dell’euro. Sull’orlo di una grave crisi finanziaria, i governi dei paesi europei indebitati – compreso quello italiano – adottarono severe politiche di aggiustamento fiscale. Ma i risultati effettivi in termini di riduzione del deficit e di inversione nella dinamica del debito furono inferiori alle attese a causa degli effetti recessivi delle politiche adottate (ai critici delle politiche di allora va ricordato che per evitare il default sul debito purtroppo non c’è alternativa all’adozione di politiche di bilancio restrittive).

Dopo la recessione di solito torna la ripresa durante la quale si applica – rovesciato di segno – lo stesso meccanismo descritto per le recessioni. Se l’economia va bene, il Pil cresce più del previsto e così fanno le entrate fiscali. In parallelo, scendono le spese sociali perché diminuisce il numero dei disoccupati e dei poveri. Durante una ripresa il deficit diventa automaticamente un surplus. In tempi di vacche grasse i governi dovrebbero quindi resistere alla tentazione di attribuirsi il merito del miglioramento dei conti pubblici, evitando di intraprendere nuove iniziative di spesa non sostenibili in periodi “normali”. L’accumulo di debiti degli ultimi decenni dice che non è andata così.

Riassumendo, la considerazione degli effetti delle oscillazioni cicliche sul deficit suggerisce di emendare la regola fissa del 3 per cento (per la precisione: di emendare qualunque regola fissa) sostituendola con una regola flessibile. I governi dovrebbero fare deficit di bilancio durante le recessioni e surplus di bilancio durante le riprese, in modo che al netto delle oscillazioni cicliche il bilancio dello stato sia in pareggio e non si verifichi un accumulo sistematico di debito pubblico. Una regola di questo tipo è – né più né meno – incorporata nel cosiddetto Fiscal compact che è spesso – ed erroneamente – criticato come incarnazione di una cieca ossessione rigorista. La regola fissa del 3 per cento è stupida; il Fiscal compact è flessibile e quindi più “intelligente”.

Al di là delle considerazioni dettate dall’alternarsi di recessioni e riprese nell’economia, ci può essere anche un’altra ragione per finanziare un programma di spesa pubblica in deficit. È il caso di programmi straordinari che portino benefici almeno parzialmente condivisi con le generazioni future. Se devo ricostruire un ponte che servirà la città di Genova per il prossimo secolo, non ha senso che il finanziamento di tale spesa (al netto di eventuali oneri che la magistratura potrà determinare a carico di chi non ha vigilato) ricada solo sulla generazione che usa oggi il nuovo ponte. Di fronte a una spesa straordinaria con benefici differiti rinviarne parzialmente l’onere del finanziamento sulle generazioni future è una decisione che ogni buon padre di famiglia si sentirebbe di condividere. E proprio l’Europa ha già autorizzato e co-finanziato spese in deficit per le emergenze terremoto nelle finanziarie degli ultimi anni.

Il discorso non si applica però allo stesso modo per tutte le voci di spesa. Un conto è finanziare in deficit la ricostruzione di un ponte crollato. Ben diversa è l’idea di finanziare in deficit misure come il reddito di cittadinanza o la flat tax o la riforma delle pensioni. Sono provvedimenti che mettono immediatamente e permanentemente più redditi nelle tasche delle persone. Ma sono misure normali, non eccezionali, che producono uniformemente i loro effetti da quando sono introdotte in ogni periodo di tempo. Un buon padre di famiglia non troverebbe dunque nessuna ragione per finanziarle in deficit.

Francesco Daveri