CHE VITA SI VIVEVA A SAN NICANDRO ALL’ALBA DEL SECOLO NOVECENTO?

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Che vita si viveva a Sannicandro all’alba dello scorso secolo? Ce lo racconta sempre Silvio Petrucci nella sua “San Nicandro, alba novecento”.

Indubbiamente una vita non dirò primitiva, ma assai arretrata, più di certe zone cosiddette “depresse” dei nostri giorni, mancandovi tre fondamentali fattori di civiltà: l’acqua, la luce, la ferrovia. Mentre la luce elettrica aveva un tollerabile, anche se primordiale, surrogato di illuminazione a petrolio, ad olio, a steariche, cui si sarebbe aggiunta quella ad acetilene e mentre la ferrovia il surrogato lo aveva lo aveva avuto prima nella diligenza, poi nell’autocorriera, per l’acqua non solo non c’era alcun rimedio, specie quando la siccità ci privava anche di quella che ci era fornita dal cielo, ma la sua mancanza era causa di una situazione addirittura vergognosa, costituita dalla quasi assoluta deficienza dei servizi igienici pubblici e domestici.

Per le vie la tromba annunziava il passaggio delle carrette e dei carribotti maleodoranti che raccoglievano i rifiuti ammassati, tra nugoli di mosche, presso le soglie delle case.

Nelle abitazioni, fatta eccezione di quelli – ed erano pochissime – che disponevano di un pozzo nero, il gabinetto di toeletta era quanto di più primordiale si potesse immaginare. Un senso di pudore e di carità per il patrio loco mi esime dal soffermarmi sull’argomento, anche se tanta bruttura era sempre sapientemente celata, per miracolo delle massaie, dietro una artificiale esteriorità decorosa. Unica rarissima possibilità di bagno, il semicupio, limitati ai soli periodi di abbondanza di acqua, pietosamente elargitaci dal cielo. Comunque il problema – che era d’igiene e di salute pubblica, di decenza e di dignità umana e di decoro cittadino – comune a quasi tutto il Mezzogiorno, fu continuamente denunciato con pressanti squilli di allarme, fino al punto che un giornale napoletano “Il Pungolo”, allora autorevole e popolarissimo, gli dedicò un editoriale di prima pagina dal titolo “Il Mezzogiorno e il water-closed”.

Per il riscaldamento, le stufe (non parliamo di termosifoni) erano del tutto sconosciute: ma nessuno se ne lamentava, perché in ogni casa l’arcaico patriarcale camino, col ceppo sfavillante, oltre che riscaldare, costruiva una nota di intima allegria e i bracieri di ottone erano spesso un decoroso e festoso ornamento domestico, sempre lucidi, con riflessi aurei e rutilanti e, qualche volta, specie nei coperchi traforati e arabescati, dalle fogge artisticamente gradevoli. Nella parata di rami che, occupanti intere pareti della cucina, era in certe case un blasone di signorilità e di agiatezza e, in quelle più umili, un segno di decoro e di pulizia, il braciere, anche se di ottone, occupava sempre un posto d’onore, secondo soltanto alla conca di rame per la raccolta dell’acqua, regina incontrastata.

Il focolare, dunque, allora, non era una retorica espressione letteraria, ma una realtà meravigliosa: fonte di calore, di luce, di letizia; attorno ad esso si raccoglieva l’intera famiglia nelle rigide serate invernali, più intimamente festosa di come oggi si siede taciturna davanti al video. Ma tutte quelle deficienze venivano celate sotto una patina di decoro, di signorilità, molto spesso nel comportamento delle persone, anche di eleganza. Ho già detto come i professionisti ci tenessero, tutti i giorni, al colletto e ai polsini inamidati; e ci tenevano anche a una bella cravatta, a un bastoncino, a un cappello ben calzato, a un vestito di buon taglio e alle scarpe sempre lustre. Diceva Don Michele Petrucci: “Il signore si vede dal colletto e dalle scarpe”.