Italia autosufficiente solo per pollo, riso e vino. Dall’estero arriva il 40% del grano per fare la pasta e ben il 60% dell’olio. Quasi tutto il pesce in scatola proviene da altre nazioni. Per il caffè, diventato un prodotto simbolo dell’Italianità, la dipendenza dall’estero è del 100%
Con il governo di Giorgia Meloni il ministero delle Politiche agricole diventerà ministero dell’Agricoltura e della Sovranità Alimentare e Forestale. La nuova dicitura ha aperto il dibattito sul ruolo che questo ministero dovrà svolgere, difendere la nostra sovranità alimentare o puntare a raggiungerla? In ogni caso la strada sarebbe molto impervia se pensiamo che al momento dovessimo sfamarci solo con quanto produciamo dovremmo cibarci solo di riso, pollo e in parte per frutta e verdura e dovremmo rinunciare ad alimenti centrali della dieta mediterranea come olio di oliva e pasta. Questo perché una parte importantissima della nostra alimentazione quotidiana proviene dall’estero e non la coltiviamo o alleviamo direttamente.
Au revoir Dieta Mediterranea. A fornire dati sull’attuale situazione è la Federalimentare, che monitora costantemente il livello di autosufficienza del Belpaese. Il primo elemento che fa storcere il naso riguarda la pasta. Importiamo il 40% dei grani assorbiti dalle industrie, che poi riversano una parte importante della produzione in altri Paesi. La situazione non è dissimile per le farine, dato che il 45% proviene da altri Stati. Ancora peggio a guardare il settore dell’olio: ne recuperiamo il 60% dall’estero, soprattutto dalla Spagna, per poi apporvi marchi “italiani”, mentre nei nostri uliveti spesso non si hanno risorse per recuperare il raccolto. Necessitiamo di un 40% di importazioni per soddisfare la produzione di carni preparate e i salumi. Passando poi agli allevamenti, per l’alimentazione animale ci riforniamo da luoghi oltre i nostri confini per oltre il 65% dei mangimi.
Sparirebbe “na tazzulell ‘e café”. Si arriva al 95% delle importazioni per le conserve ittiche, come tonno e sgombro in scatola. Totale poi la dipendenza dall’estero per un caposaldo delle abitudini italiane come il caffè. Idem per il cacao, necessario per cioccolata e tutta l’industria dolciaria. In entrambi i casi si tratta di colture che non sono adatte ai nostri terreni né al nostro clima, nonostante stia facendo sempre più caldo anche sul nostro territorio. L’indipendenza si ridurrebbe dunque alle carni dei volatili, come polli e galline, e alle uova, dove comunque incide il fattore “mangimi esteri” visto sopra. Limitate al 5% le importazioni di vino e acque minerali. Stessa cifra per il riso, mentre latte e formaggi si fermano al 6%. Nel settore dell’ortofrutta trasformata, di cui comunque siamo importanti produttori, è necessario in ogni caso acquistare il 16% delle materie prime. In definitiva, per diversi nostri prodotti simbolo non siamo certo autonomi.
Missile alimentare dalla Russia. Prima ancora che la questione tornasse d’attualità con il governo Meloni e l’attributo della Sovranità alimentare al ministero per l’Agricoltura, il problema dell’indipendenza produttiva si era già posto nel corso della pandemia e a seguito dell’invasione dell’Ucraina da parte della Russia. Nonostante i timori, nel caso del Covid-19 l’impatto sul settore agroalimentare è stato importante, ma l’Italia ha retto bene, grazie anche ai regimi di protezione attivati nell’ambito dell’Unione europea. La crisi scatenata dalla guerra sta invece avendo una gittata ben più lunga, tra le esportazioni di cereali e oli vegetali sulle rotte del Mar Nero nuovamente bloccate da Vladimir Putin, e i costi aumentati all’inverosimile di due “input” agricoli: mangimi e fertilizzanti.
La “crisi dei mangimi”. Per i primi era fortissima la dipendenza dal mais prodotto in Ucraina, mentre i secondi provengono in gran parte da Russia e Bielorussia. “In questo quadro spicca la situazione critica relativa al mais. Sarà necessario importare circa 20 milioni di tonnellate, in concorrenza con la Cina, che è il primo importatore a livello mondiale”, ha sottolineato pochi giorni fa Massimiliano Giansanti, presidente di Confagricoltura. Con i prezzi del gas necessario a produrre i fertilizzanti ormai fuori controllo, pur volendosi affidare ad una produzione interna i costi per le aziende agricole restano proibitivi. Per questa ragione il 9 novembre è attesa un’importante comunicazione della Commissione europea in questa materia.
Gas, mio caro gas. “Potrebbero mancare i fertilizzanti, a causa della riduzione della produzione, con punte fino al 50%, determinata dall’eccezionale incremento dei prezzi del gas”, ha affermato Giansanti, precisando che si tratta di “un problema mondiale in termini di prezzi e disponibilità. Se ne discuterà durante la riunione del G20 che si terrà in Indonesia il 15 e 16 novembre”. Una parte importante del problema quindi non dipende tanto dal numero di terreni coltivati, come ha lasciato pensare il ministro Francesco Lollobrigida, affermando di voler recuperare un milione di ettari “sbloccandoli” dai vincoli Ue. Le regole previste dalla nuova Politica agricola comune riguarderebbero in realtà solo 200mila ettari, per i quali comunque è in vigore una deroga fino al 2023.
Estate perenne. La crisi si annida da un lato nel sistema produttivo agricolo, troppo dipendente da pesticidi, mangimi e fertilizzanti, e a livello industriale dalle scelte di molti marchi “italiani”, che in realtà preferiscono reperire materie prime dall’estero a prezzi più bassi, rivendendo al contempo i loro prodotti all’estero fregiandosi dell’aura tipica del Made in Italy. Infine, i cambiamenti climatici, con una siccità quasi perenne che mette in crisi tantissime colture, innanzitutto quelle idrovore, come il mais. “La siccità e le temperature sopra la media stanno ostacolando il normale svolgimento delle semine in vista dei nuovi raccolti” ha evidenziato il presidente di Confagricoltura. Dopo questo inizio di autunno dalle temperature estive, la situazione nei campi resta caldissima. Da ogni punto di vista. (agrifoodtoday)