SAN NICANDRO, CORSO GARIBALDI (VIA DU CUMMENT)

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Dopo il “Piano” (Mez o chian), Silvio Petrucci ha trattato, sempre nella sua “Alba Novecento” anche l’attuale Corso Garibaldi (Via du Cumment) che era il naturale prolungamento del “Piano” e a chi vi giungeva dal “Piano” presentava lo spazio riservato alla Fiera d’Ottobre, chiamato Pozzo Bove (Pizz’ vov), uno spazio cge sembrava fatto apposta per ospitare migliaia di bestie senza intralciare il traffico e arrecare disturbi agli abitanti perchè, oltre ad essere vasto, era pressocchè disabitato e più ricco di verde che di case.

Intorno intorno, infatti, si stendevano un ridente giardino, quello di Felicetto Pepe, e l’immenso orto di Croce che digradava fino a sprofondare nel Vallone, mentre, dal lato più elevato, vi strapiombavano i dirupi della Terravecchia.

Da “Pozzo Bove” si accedeva lassù per un’erta pietrosa della “La Micca”, nome forse dovuto alla presenza in passato di una distilleria con alambicchi. Dal lato opposto, a sinistra del vecchio forno di “Lupo” doveva poi sorgere dominando dall’alto la “Casa del Popolo” su un’area donata da Domenico Fioritto. Allora, all’alba del Novecento, il Largo era quasi deserto mostrando tre soli punti di vita: il forno del “Lupo, nomignolo del fornaio; una cantina (rivendite di vino con un drappo rosso esposto all’ingresso); infine la mascalcia di Pasquale Liberatore (abruzzese), il cui figlio Giovanni fu poi sindaco socialista del paese.

Zona anche ideale, il Largo di Pozzo Bove per giostre e baracconi ambulanti. Ora, con le case moderne, il vecchio Largo è irriconoscibile. Nel centro del Largo c’era un pozzo con accanto un alberello di arancio e intorno macchie di ortiche che celavano il preziosissimo tesoro di un’acqua considerata sorgiva.

Mancava, però qualsiasi indicazione sulla derivazione del nome “Bobe” affibbiato al singolare pozzo, e , in quella ignoranza, la fantasia ora si sbrigliava in voli lirici sul motivo carducciano “t’amo pio bove”, ora rimaneva imbrigliata nel misterioso labirinto di una popolare favola che allora si raccontava ai bambini. La favola raccontava, in un infantile e commovente dialogo, la sorte di un piccino dal nome “Vungolicchio” (Baccellino), ingoiato vivo da un bue; “Vungolicchio di mamma, dove sei?”. “In corso al bove”. “A quale bove?”. “Al bove rosso”. Spacca il bove rosso e il piccino non si trova. E ancora: “Vungoliccio di mamma, dove sei?”. “In corpo al bove bianco”. E poi in corpo al bove, verde, nero, giallo, eccetera eccetera.

All’ingresso del Corso Garibaldi, immediatamente sulla destra, c’ero lo scantinato della Chiesa dei Morti una bottega di falegname carpentiere, la bottega di “Mastro Saverio”, al quale tutti i ragazzi del paese davano ogni mattina il buongiorno passandogli davanti per recarsi a scuola. Si ricorreva a Mastro Saverio per farsi fabbricare carrettini di legno e curiosi strumenti intonarumori (“tirr tirr” e “ndrocciole” o raganelle) che riempivano di un fragore scoppiettante le giornate pasquali ed, infine, i “cippi”, pezzi di legna appuntiti che, scagliati con una mazza, servivano al più battagliero gioco infantile di quei tempi. (CONTINUA)