BABY INFLUENCER: LA NUOVA SCHIAVITU’ MINORILE

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Bambini sfruttati, innanzitutto dai genitori, per promuovere qualsiasi prodotto. Compreso il cibo-spazzatura dal quale nasce l’epidemia dell’obesità infantile

Ryan Kaji è diventato popolarissimo negli Stati Uniti, ancora da bambino di appena dieci anni, come influencer del cibo-spazzatura. Milioni di fan sui social, milioni di visualizzazioni di video che puntualmente diventano virali, milioni di fatturato. D’altra parte, il fattore del junk-food in America vale un giro d’affari attorno ai sei miliardi di dollari all’anno. E pazienza se in America l’obesità giovanile sia considerata una vera emergenza sanitaria nazionale.

Lo sfruttamento dei bambini online

Gli americani sono dei veri specialisti nell’arte dello spreco, alimentato attraverso l’apparente contraddizione della leva dei consumi e della parallela corsa al salutismo. Apparente in quanto tutto rientra in un unico business.  Accade così, per esempio, per lo shopping compulsivo: prima ti inducono a comprare, comprare, comprare, anche cose che non servono a nulla, e poi quando finalmente scopri di essere malato, ti curano in una clinica. A suon di decine di migliaia di dollari. Hai problemi con il cuore per una cattiva alimentazione? Altro giro in clinica, dove al coffe shop i pazienti, dopo un intervento a cuore aperto, sono ben «curati» come se fossero in un albergo di Miami, a colpi di breakfast con uova e pancetta. Il cibo-spazzatura, le cui vendite sono alimentate dallo sfruttamento dei bambini online, fa parte di questo circolo vizioso: prima ti faccio ammalare, e poi ti propongo costose cure.

I baby influencer in Italia

Il fenomeno dei baby influencer è uno dei lati più oscuri dell’universo dei social, e assume i connotati di una forma schiavismo minorile, dove, a prescindere dai guadagni degli influencer, a fare i veri affari, guidando l’intera filiera, ci sono grandi marchi di prodotti non certo indicati per la salute, innanzitutto quella dei bambini.

Il New York Times ha pubblicato un’inchiesta dal titolo molto significativo: «Chi sono i mini-influencers che fanno ingrassare i vostri figli?» E cita un’indagine della New York University, pubblicata sulla rivista Pediatrics che spiega bene funzionamento e danni di questo nuovo fenomeno. Premesso che YouTube è un canale visto da circa il 40 per cento dei bambini, e dunque è diventato uno strumento prezioso per veicolare messaggi pubblicitari indirizzati ai minorenni, i ricercatori americani hanno fatto qualche test sul campo, andando a vedere da vicino i contenuti di 418 video andati online con il volto di un mini-influencer di età compresa tra gli 8 e i 14 anni.

Il fenomeno dei baby influencer ha contagiato anche l’Italia. Leonardo è un bambino modenese di 12 anni, con un canale Youtube, chiamato Leo Toys, sul quale si contano quasi 600mila iscritti. I video di Leonardo, come i suoi game play, hanno sponsor come Netflix, Mattel e Warner Bros. Alyssa e Daniel non hanno ancora dieci anni, ma le loro storie sul canale YouTube Silvia e Kids, raccolgono ogni sera milioni di visualizzazioni da parte di giovanissimi che prima di andare a letto si incollano sugli smartphone per seguire le nuove avventure dei due minorenni.

Secondo una statistica raccolta da Save the Children, 336mila minorenni, tra i 7 e i 15 anni, hanno avuto esperienze di lavoro. Di questi circa il 6 per cento ha lavorato online per realizzare contenuti per social o per videogiochi. E per promuovere in particolare junk-food, smartphone e sigarette elettroniche.

I kid influencer su YouTube

Quasi la metà dei bambini promuoveva cibi e bevande, marchi che nel 90 per cento dei casi sono poco salutari, e dunque dannosi per la salute dei bambini. Bevande zuccherate e dolci, cibi gonfi di carboidrati e grassi. Questi video sono stati già visti oltre un miliardo di volte. E un solo video, quello dell’Happy Meal della Mc Donald’s, ha avuto quasi cento milioni di visualizzazioni. Numeri che spiegano i motivi per i quali i baby-influencer ottengono poi ricavi stratosferici, da star del web.

Al termine di tutto questo giro, si arriva al capolinea: lo spreco della salute. Il 20 per cento dei bambini e dei ragazzi americani, tra i 2 e i 19 anni, risultano obesi. Erano appena il 5,5 nel 1970. E anche in Italia bisogna fare i conti con questo fenomeno di cattiva alimentazione, spinta dalla pubblicità e dagli influencers. Un bambino su dieci è obeso e due su dieci sono in sovrappeso. L’abitudine al cibo-spazzatura purtroppo si paga a caro prezzo.  Per la gioia di chi ci guadagna tanti soldi. Mentre dappertutto, a partire da quel mondo di fantasmi che si raccoglie attorno all’Organizzazione mondiale della Sanità, non si fa altro che predicare un’alimentazione sana già dall’infanzia.

Il mercato condizionato dai baby influencer

Secondo un’indagine di Trend Online, l’86 per cento della generazione Millennials (i nati tra gli inizi degli anni Ottanta e la metà degli anni Novanta), una delle più attive sul mercato degli acquisti, dichiara di essere orientata nelle proprie scelte dai baby influencer. Queste macchine da soldi hanno quasi sempre alle spalle le famiglie, con i genitori che svolgono il ruolo di agenti dei figli minorenni e curano tutti gli aspetti commerciali dell’attività online. Sono gi stessi genitori appassionati del postare le immagini dei figli sui loro profili social.

Il fenomeno dello sharenting

I baby influencer hanno molte frecce nei loro archi, e queste li rendono molto richiesti sul mercato della pubblicità. Si rivolgono ai potenziali consumatori, anche loro minorenni, con un linguaggio diretto, esplicito, parlando come se giocassero. Attraverso le piattaforme più frequentate dai giovanissimi (YouTube, Instagram e TikTok), i baby influencerdiventano beniamini dei loro coetanei, prostrati davanti al bombardamento di messaggi tutti orientati a incentivare l’acquisto di prodotti che, proprio per le loro caratteristiche poco salutari, non sono facili da piazzare.

L’Unione Europea, compresa l’Italia, ha fissato a 14 anni l’età minima per iscriversi a una piattaforma social, ma questo ipocrita divieto non basta ad arginare il fenomeno dei baby influencer, anche perché i primi ad aggirare la legge sono i genitori di bambini che cercano e trovano sui social le bussole dei loro stili di vita e dei relativi consumi. Uno studio europeo, che risale al 2021, dimostra che l’80 per cento dei bambini ha una significativa presenza sui social già all’età di due anni, mentre il fenomeno dello sharenting (la condivisione costante sui social di post con immagini dei propri figli) riguarda il 63 per cento dei genitori e in prevalenza bambini da zero a tre anni.

I problemi etici

Gli interrogativi etici, e non solo, sull’attività dei baby influencer, passano in secondo piano rispetto alla catena di interessi che fanno da base alla loro attività. La contraddizione è evidente: ai minorenni viene proibito, in teoria, l’iscrizione alle piattaforme dei social, ma possono scorrazzare come autori di video e post pagati dalle aziende che fanno pubblicità. La privacy di questi bambini viene calpestata ogni minuto, e nessuno fiata. La pressione alla quale sono sottoposti, per produrre like a ciclo continuo, è impressionante e provoca problemi psicologici che difficilmente vengono rimossi. Nel Far west dei baby influencer è difficile anche solo pensare a qualche norma che possa contenere e regolamentare il fenomeno. In America, per esempio, esistono regole molto severe per il lavoro dei minorenni, anche solo come comparse, nei set cinematografici e nelle fiction, ma non c’è nulla all’orizzonte per i baby influencer. La tecnologia senza regole produce anche questo: l’infanzia monetizzata e schiavizzata dalla dittatura del mercato. (nonsprecare)