Per una risonanza magnetica serve, in media, un anno. Per una mammografia 720 giorni, per un’ecografia 375 giorni, per una Tac e per un intervento cardiologico 365 giorni, poco più di quanto richiede una visita diabetologica (362 giorni) o un intervento ortopedico (360 giorni).
LISTE D’ATTESA SANITÀ
Le liste d’attesa nella Sanità dividono in due l’Italia. Tra chi può permettersi di rivolgersi alle strutture private, e dunque non ha bisogno di fare alcuna fila, e chi invece non ha i mezzi per farlo. Tra chi vive in regioni (di solito al Nord) dove il servizio sanitario nazionale funziona meglio, e chi invece è residente nelle zone del Paese dove le condizioni degli ospedali sono vergognose.
LISTE D’ATTESA E COVID-19
Un colpo mortale al funzionamento della sanità pubblica lo ha dato l’onda lunga dell’emergenza del Covid-19. Una situazione che ha fatto saltare milioni di prestazioni, sempre a danno delle fasce di popolazioni più fragili. Secondo i calcoli del Centro di ricerca in Economia e management in Sanità dell’Università Carlo Cattaneo, per problemi legati all’emergenza Covid-19 sono saltati 12,5 milioni di esami diagnostici, 20,4 milioni di analisi del sangue, e 13,9 milioni di visite specialistiche, tutti saltati. Gli interventi per tumori alla mammella sono crollati tra il 20 e il 40 per cento, eppure si tratta di un cancro nel quale il fattore tempo è decisivo. Per una visita oculistica, nel 2019 un cittadino doveva aspettare, in media, 70 giorni; già nel 2021 i giorni sono diventati 144.
LISTE D’ATTESA CHE COSA PREVEDE LA LEGGE
Eppure abbiamo una legge stringente sulle liste d’attesa. Il Servizio sanitario nazionale deve garantire una prestazione in 72 ore, se urgente; in 10 giorni se si tratta di un paziente in codice “breve; entro 30 uiorni se l’esame è differibile; entro 120 giorni se è programmato.
CHI È RESPONSABILE DELLE LISTE D’ATTESA
La lista d’attesa, uno spreco enorme che colpisce la salute dei cittadini, nasce da uno squilibrio tra domanda e offerta di prestazioni sanitarie. Dunque, è il risultato di una cattiva organizzazione e di un funzionamento non corretto degli ospedali e delle Asl. Il responsabile apicale delle liste d’attesa è il direttore sanitario della struttura, il quale deve farsi carico della tenuta e dell’aggiornamento dei registri con la prenotazioni. Il suo però non è solo un ruolo contabile e passivo: il direttore sanitario ha il dovere di segnalare disfunzioni, mettere in campo i necessari correttivi, fare valutazioni periodiche per ogni prestazione e innanzitutto garantire l’equità dei servizi. Nessuno e per nessun motivo, che non sia una certificata urgenza, può scavalcare l’ordine nel quale è stato inserito in prenotazione. Sul sito di Cittadinanza attiva, a questo link, trovate tutte le indicazioni sui tempi massimi consentiti dalla legge per le liste d’attesa e su che cosa bisogna fare quando vengono superati.
COME METTERSI IN LISTA D’ATTESA
Tutto avviene per via informatica. Il paziente, tramite la via informatica, si inserisce nella lista d’attesa, e in quel preciso momento ha il diritto di sapere: le informazioni sul suo ricovero, le classi di priorità, i tempi massimi di attesa. In realtà, come abbiamo detto, gli effetti del Covid-19 sono stati devastanti per le liste d’attesa, e in molti ospedali, nella fase più critica dell’epidemia, tutte le altre prestazioni sanitarie sono state sospese. Mano a mano che la situazione del virus migliora, servirebbe mettere a punto un piano nazionale per lo smaltimento delle liste d’attesa, senza discriminazioni tra una regione e l’altra. Ricordiamo che sulle liste d’attesa esiste una legge che risale al 2003, e va rispettata proprio per evitare che si accumulino.
CHE COSA SIGNIFICA PRIORITÀ NELLE LISTE D’ATTESA?
Si tratta di un codice, laddove la B sta per Breve, che indica la massima urgenza per intervenire. La prestazione, per le particolari condizioni del paziente (dolori, disfunzioni, disabilità), deve essere eseguita entro dieci giorni dalla prognosi. In tempi più rapidi c’è solo la priorità U, che sta per Urgente, da eseguire entro tre giorni. Poi ci sono la D, Differita, entro trenta giorni, e la P, Programmata, entro 180 giorni. Le prescrizioni con questi livelli di priorità hanno una validità pari a sei mesi.
LISTE D’ATTESA PER VISITE SPECIALISTICHE
La valanga di arretrati da smaltire alle attese già molto lunghe prima della pandemia: da qui la previsione che i tempi raddoppieranno. Due anni per un intervento di ernia del disco. Sedici mesi per una visita psichiatrica. Quattordici mesi per una mammografia. Nove mesi per una risonanza magnetica e sei mesi per un controllo oncologico. Di fronte ai dati raccolti nel Rapporto Salute del Tribunale dei malati e di Cittadinanza attiva, che a prima vista sembrano inverosimili per la loro gravità, viene da pensare una sola cosa: in Italia il diritto alla salute, sulla carta garantito a tutti i cittadini, è stato cancellato. Il sistema sanitario nazionale, che pure ha costi in linea con gli altri paesi dell’Unione europea, non è più una rete di garanzia universale. E l’accesso ai servizi, con queste liste di attesa, è negato a una parte prevalente della popolazione, mentre è garantito soltanto a chi, grazie a qualche santo in Paradiso, è in grado di scavalcare il calendario delle prenotazioni. Aggiungete poi i costi del ticket (che in alcuni casi portano le prestazioni pubbliche ad essere meno convenienti di quelle private), la spesa per farmaci non rimborsabili (650 euro a famiglia), le uscite per chi ha bisogno della badante (9.000 euro l’anno) o di prodotti monouso come i pannolini e i cateteri (737 euro), e avete un quadro devastante della Sanità italiana. Una macchina che ormai sembra girare più in funzione di chi lavora al suo interno che non degli utenti ai quali dovrebbe essere assicurata l’assistenza a 360 gradi.
LISTE D’ATTESA NELLA SANITÀ
D’altra parte gli italiani, popolo adattivo per natura, hanno già preso le loro contromisure. Costosissime. Uno studio del Censis ha calcolato un 30 per cento di cittadini che fanno ricorso al privato per le mammografie (più un altro 13 per cento che paga il conto in intramoenia), e più o meno queste percentuali si riscontrano in tutte le specializzazioni mediche. E soltanto un terzo degli italiani (l’11 per cento nelle regioni meridionali) considerano “adeguato” il Servizio sanitario nazionale nella loro regione. Mentre il nostro ceto politico continua a discutere, in termini spesso astratti e ideologici, di come bisogna riformare il welfare, i cittadini, a costo di sacrifici finanziari (che poi, certo, incidono anche sulla contrazione dei consumi) stanno archiviando il loro rapporto con la sanità pubblica.
RITARDI NELLA SANITÀ
Un declino così progressivo non è riconducibile a un problema di risorse finanziarie, altra Grande Bugia nazionale, visto che la spesa pubblica per la protezione sociale in Italia è equivalente a quella della Germania e della Svezia: semmai il problema è l’impiego dei soldi, la qualità della spesa, gli sprechi e le inefficienze. Cose che abbiamo ogni giorno sotto gli occhi, e continuamente denunciamo. Troppi ospedali inutili, piccoli e non attrezzati, con un’enorme dispersione di finanziamenti; troppi reparti in reale attività solo la mattina, con i primari impegnati negli studi privati; troppo caos nei Pronto soccorso, senza il filtro all’ingresso dei medici di base; troppi soldi concessi a cliniche e case di cura convenzionate, cresciute in modo abnorme e non attrezzate secondo gli standard di sicurezza previsti dalla legge. È in questo pozzo nero di sprechi che i cittadini devono aspettare un anno prima di avere la diagnosi di un tumore o di capire quanti rischi corrono di prendere un infarto. Ed è in questo pozzo nero che dovrebbe lavorare il ministro della Sanità di turno, non limitandosi a un’attività di ragioneria a difesa dei fondi e poi per la loro ripartizione, ma puntando, con azioni concrete e quotidiane, all’obiettivo di restituire agli italiani il diritto alla salute. Sarebbe una bella riforma.
CAOS LISTE D’ATTESA
L’intero castello delle liste d’attesa è molto fragile in quanto regge su piedi d’argilla. Secondo uno studio della fondazione Gimbe, soltanto 9 regioni su 21 hanno creato un sito web per essere interattivi con gli utenti e per dare la piattaforma informatica necessaria per iscriversi alle liste d’attesa senza finire nel caos. E queste regioni, non è un caso, sono quasi tutte nell’Italia del Nord. (nonsprecare)