LA MEMORIA DELLA PRATICA DEL CANTO SULL’ALTALENA A SAN NICANDRO GARGANICO

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Per i sannicandresi di ieri e di oggi la parola ndràndëla indica l’altalena, come congegno formato da una fune e da una tavola in legno che funge da sedile. Nella conversazione la parola ricorre in locuzioni idiomatiche utilizzate per stigmatizzare situazioni e circostanze caratterizzate da continui andirivieni che rimandano alle oscillazioni dell’altalena. Ma è in espressioni come candà li ndràndëla (cantare l’altalena) e canzónë dë ndràndëla (canzoni dell’altalena) che la parola si fa portatrice di specifiche valenze simboliche e di significati, evocando contesti che, in funzione fino alla fine degli anni Cinquanta del secolo scorso, hanno a che fare con l’altalena: la prima accezione richiama la pratica di accompagnare con il canto l’oscillazione del congegno, mentre la seconda individua il corpus di testi che veniva eseguito, sull’altalena in movimento, sulla base di una specifica melodia e secondo una prassi performativa codificata. La pratica de li ndràndëla si inseriva nell’arco temporale compreso tra il Sabato Santo a mezzogiorno, ora in cui si “scioglievano” le campane, e la “Pasqua delle Rose”, la Pentecoste, intensificandosi la domenica e in alcune ricorrenze del calendario religioso: il Lunedì dell’Angelo, in occasione della tradizionale gita fuori porta, e per la festività di San Michele, l’8 maggio, a margine del pellegrinaggio rituale alla grotta consacrata all’Arcangelo nei pressi di Cagnano Varano.

In ambiente campagnolo, l’altalena veniva issata al ramo di un albero, mentre in ambito urbano trovava posto in spazi domestici. All’interno dell’abitazione una fune veniva fatta passare in una boccola (catënèdda) fissata all’architrave dell’uscio o alla trave maestra (capëtravë); in assenza dell’anello si faceva scorrere la fune tra le assi del soffitto (šcunë) e del suo sostegno, e talvolta la parte a contatto con la trave veniva avvolta in uno straccio bagnato per evitare che la frequenza delle oscillazioni la spezzasse. Ai capi veniva fissato l’asse per lavare i panni (taulédda), le cui estremità sagomate e la dentellatura permettevano di incastrare la fune con nodi semplici o scorsoi. Issati li ndràndëla erano pronti ad accogliere la coppia di “cantatori” che, disponendosi l’uno a fianco dell’altro, con i piedi sollevati da terra, cercavano di tenersi in equilibrio reggendosi ciascuno a un lato della fune e premendo sul bordo della tavola. Le oscillazioni dell’altalena avvenivano nel senso parallelo all’asse, tramite apposite spinte impresse al lato corto della tavola da altre persone. Chi prendeva posto in testa all’altalena aveva la funzione di leader della coppia: a lui spettava il privilegio di scegliere il testo verbale del canto da eseguire e di intonarlo, guidandone, verso dopo verso, l’esecuzione. Sull’altalena si andava sempre in due: nel caso di una coppia costituita da individui di sesso diverso essi dovevano essere legati da vincoli di parentela o comunque doveva trattarsi di fidanzati o coniugi, per cui era l’uomo a sedere in testa all’asse. Come ogni azione ludica di gruppo, infatti, la pratica dell’altalena imponeva ai partecipanti l’adesione a specifiche regole modellate secondo le relative norme della consuetudine sociale, sulla quale si basavano i rapporti di genere, e la connessa morale sessuale con i corrispondenti codici comportamentali afferenti alla gestione degli spazi. Pertanto, la selezione dei “compagni d’altalena” e l’assegnazione dei ruoli avvenivano in un ambito ristretto, socialmente riconosciuto. Nel tempo di Pasqua l’abitazione che ospitava l’altalena diventava il luogo in cui prendeva vita una vera e propria festa famigliare: parenti e vicini, con i quali si intrattenevano rapporti di comparatico, prendevano parte all’evento e spesso suggerivano alla coppia su li ndràndëla i testi da eseguire in risposta a qualche canto che giungeva da un’altra abitazione. Gli invitati erano anche coloro i quali si proponevano sia come “spingitori”, sia come “cantatori”. A tutti infatti era concesso sedere sull’altalena senza distinzioni di genere o età; tuttavia la partecipazione attiva degli adulti spesso suscitava allusioni maliziose dei presenti, i quali non accoglievano con disappunto il desiderio da questi espresso di lasciarsi altalenare ma ne evidenziavano l’inappropriatezza giustificandolo come conseguenza di qualche bicchierino di troppo. Li ndràndëla infatti erano un divertimento frequentato prevalentemente da adolescenti, soprattutto da ragazze in età da marito: una caratteristica sistematicamente riscontrata in altre realtà culturali in cui è stata rilevata la presenza della pratica del canto sull’altalena e che, per questo, la rende del tutto autonoma dall’altalena intesa come gioco infantile, per la quale esiste un repertorio di testi specifico eseguito con l’unica finalità di scandire ritmicamente il movimento impresso al congegno (cfr. Brunetto 2010).

All’esterno dell’abitazione si radunavano frotte di ragazzi che si candidavano a spingere l’altalena, mentre i giovani innamorati ascoltavano il canto dell’amata, valutando l’idea di approntare risposte. Aderendo a una codificata funzione comunicativa e strumentale, la pratica, infatti, diventava il mezzo privilegiato per il corteggiamento (fà l’amórë), veicolando messaggi che, prevedendo un destinatario, innescava un complesso sistema relazionale funzionale da una parte all’individuazione e alla selezione del partner, dall’altra, a ribadire e rafforzare legami sociali preesistenti (cfr. Brunetto 2010: 79); o, al contrario, rendere pubblici i conflitti e ribadire le distanze tra gli individui. L’altalena, infatti, «afferisce a momenti festivi di rovesciamenti codificati e di regolata licenza» (Scafoglio 1996: 25), rientrando a pieno titolo nel novero di quegli spazi cerimoniali istituiti per vivere a livello sociale la propria vita sentimentale e per regolare pubblicamente eventi di norma ritenuti di carattere privato (cfr. Magrini 1986: 31). Tendere l’orecchio a ciò che viene veicolato in forma di canto e decodificarlo fa dell’altalena un’esperienza uditiva totale, e mette chi ascolta nelle condizioni di ricevere “aggiornamenti” sulle vicende relazionali che riguardano i membri della comunità. Che li ndràndëla avessero come partecipante un pubblico di attenti ascoltatori emerge dai “ricordi sonori” di coloro che ne hanno vissuto la vitalità; in essi dominante è la percezione di un paesaggio sonoro privo di rumore di fondo, condizione che rendeva possibile captare nitidamente le informazioni acustiche provenienti dai vari punti del centro abitato. In questo paesaggio sonoro hi-fi (cfr. Schaffer 1985: 67-68), nelle ore pomeridiane i canti eseguiti sull’altalena divenivano udibili a distanza senza interferenze esterne tali da compromettere l’effetto acustico definito dall’andirivieni delle voci e gli effetti timbrici prodotti dall’alternanza tra l’ambiente chiuso dell’abitazione e lo spazio aperto.

I testi dei canti eseguiti su li ndràndëla (cfr. Vocino 1923: 55-61, La Sorsa 1933: 186-196, Marsilio [2013], Frascaria 2018: 111-122) si presentano quali testimonianze “dense” di informazioni per la ricostruzione del contesto esecutivo e delle dinamiche relazionali innescate dalla pratica rilevabili attraverso l’analisi del repertorio. Una prima classificazione emica è data dal rapporto esecutore-destinatario: se è l’uomo a cantare alla donna, i canti ricadono nell’ambito maschile (canzónë dë jòmmënë), in caso contrario in quello femminile (canzónë dë fémmënë); una seconda distinzione è determinata dal contenuto e dal sentimento di cui il testo verbale si fa portatore: i canti d’amore (canzónë d’amórë) propongono i tipici motivi del corteggiamento, mentre i canti a dispetto, detti canzónë dë gnùria o sdégnë, danno voce al diniego, al disprezzo, all’attacco verso rivali in amore e all’odio derivante da situazioni estranee alla sfera amorosa, rendendo pubblici i conflitti in atto tra gli individui, pur senza prefigurarne una risoluzione. Al gruppo delle “canzoni” d’amore sono ricondotti due sottoinsiemi: i canti di commiato (canzónë dë suldatë) e i canti di riappacificazione (canzónë chë fà pacë). A tutt’altra categoria appartiene un gruppo di testi estraneo al corteggiamento e all’invettiva e destinati all’intrattenimento: ‘i canzónë chë rrirë (le canzoni per ridere). Si tratta di testi a carattere narrativo, satirico o scherzoso, fra i quali le “canzoni alla rovescia” (canzónë a la ruuèscia) che propongono, attraverso situazioni paradossali, il ribaltamento logico della realtà. I canti dell’altalena, nella loro forma completa, si presentano costituiti da una sequenza di otto versi di endecasillabi (la canzónë), legati da rime alterne, secondo lo schema dello strambotto; a essa segue un distico di endecasillabi a rima baciata (l’aria), che rappresenta, sul piano verbale, il tratto distintivo dei canti dell’altalena. Sul piano performativo il canto si sviluppa su modulo melismatico, con esecuzione monostica e antifonale: la prima voce espone un verso (la paróla) della “canzone” dividendolo in tre parti, la seconda lo riprende e lo ripropone integralmente talvolta con lievi variazioni di elementi verbali e della linea melodica. A ogni verso viene preposta una formula sillabica, oré o jorè, che rappresenta sul piano performativo la caratteristica del canto eseguito su li ndràndëla.

Gli studi condotti sulla pratica dell’altalena, sulla base delle occorrenze nelle diverse realtà etnografiche italiane (Calabria, Basilicata, Puglia, Molise, Abruzzo e Lazio) e sulla scorta della documentazione diacronica (cfr. Scafoglio 1996: 8, Brunetto 2010: 129, de Martino 2013: 231-235), rilevano in essa un’azione rituale di valenza agraria, in quanto espressione di riti di propiziazione legati alla rinascita della natura poi assorbiti e adattati al ciclo liturgico cristiano. Al di là delle valenze simboliche rinvenibili, vista da vicino la pratica resta principalmente un’azione ludica di gruppo tramite la quale condividere i moti della propria vita sentimentale con l’intera comunità: questa è parte attiva del gioco allo stesso modo in cui lo sono i partecipanti, coloro che cantano cercando l’accordo con il moto impresso all’altalena da altri che a loro volta potranno prendervi posto, e coloro che ascoltano e si mettono in condizione di decodificare quanto veicolato dal canto per replicare. Quindi, il lavorio a cui li ndrandëla attendono consiste nel tessere e ritessere legami sociali, verificare la stabilità e la consistenza di quelli già esistenti, partendo da quelli del gruppo familiare che garantisce il rispetto delle regole, e attraverso il corteggiamento crearne dei nuovi prefigurando l’alleanza; al contrario disfare quelli già in opera e ribadire la conflittualità derivante dalla rottura. È in questo senso che l’individuo sperimenta la dimensione comunitaria, attraverso quello che Patrizia Resta definisce «rito di incorporazione» (2008: 52). (FITP)

Angelo Frascaria