La violenza economica è una delle forme invisibili ma più esplicite di violenza maschile contro le donne. Riconosciuta dalla Convenzione di Istanbul, è ancora fortemente presente nella nostra società e si tratta sostanzialmente di una forma di controllo. Secondo la psicologa clinica Maria Luisa Bonura, consiste nell’estromettere la donna dalla possibilità di controllare e gestire le entrate familiari in modo da creare dipendenza economica, o nell’imporre impegni finanziari e/o impedire che la donna possa avere denaro proprio del quale disporre autonomamente anche per obiettivi e necessità personali.
Il Report “Ciò che è tuo è mio“(2023) realizzato da WeWorld insieme a Ipsos ha analizzato un campione rappresentativo della popolazione italiana composto da 1.200 persone (di cui 209 donne separate o divorziate), per tenere traccia dell’immagine sociale della violenza maschile contro le donne, e in particolare far emergere la percezione e l’esperienza diretta della violenza economica.
Abbiamo intervistato Martina Albini, curatrice del rapporto, per capire in quale situazione siamo ora in Italia.
Dottoressa Albini, qual è oggi l’immagine sociale della violenza contro le donne in Italia?
In Italia siamo bravissimi a fare le leggi. Poi, però, c’è tutto un problema relativo all’humus culturale del nostro Paese. La violenza economica è la forma di violenza più sottovalutata, ma abbiamo rilevato un problema stesso nell’identificare il fenomeno, perché è poco noto. Se parliamo di violenza economica, una persona media non sa di cosa sto parlando. Quando, invece, iniziamo a citare una serie di comportamenti che configurano tale forma di violenza la situazione cambia e molte persone si ritrovano.
Dal nostro punto di analisi notiamo che qualsiasi tematica sociale è polarizzata: avviene lo stesso anche per la violenza maschile contro le donne. Dalla nostra indagine risulta che da un lato il 50% di italiane e italiani è consapevole che la violenza maschile contro le donne in qualsiasi sua forma è un problema strutturale che necessiterebbe di risposte collettive politiche. L’altro 50%, però, è spaccato. Il 35% sostiene che le donne non causano la violenza, ma che dovrebbero cercare una soluzione privata alla loro situazione perché “tra moglie e marito è meglio non mettere il dito”. E il 15%, addirittura, è negazionista e sostiene che la responsabilità è della donna, legittimando a tutti gli effetti la violenza.
Il tema della violenza economica mostra come gli stereotipi di genere siano ancora presenti nella nostra società: il 16% degli uomini, contro 6% delle donne, pensa che sia giusto che in casa sia l’uomo a comandare. Questo ci dice tanto del quadro che abbiamo analizzato.
Nei casi concreti di violenza economica quali fattori possono incidere maggiormente?
Non esiste una vittima tipo: tutte le donne sono potenzialmente esposte e potrebbero essere vittime di violenza. Fa riflettere il fatto che in Italia il 37% delle donne non ha un conto corrente. Posto questo, ci sono alcuni fattori – quali la giovanissima età, il background migratorio, la disabilità o, in questo caso, anche la condizione di separazione o divorzio – che espongono alcune donne più di altre.
Per quanto riguarda le donne dal background migratorio nelle interviste realizzate nei nostri Spazi Donna è emerso come il fattore aggravante sia l’isolamento sociale. La barriera linguistica di per sé è un limite fin dall’inizio, ma nei casi di violenza c’è proprio quasi la volontà di allontanare la donna da qualsiasi possibilità di avere una rete. Spesso sono donne che non possono uscire di casa, al massimo possono andare a fare la spesa, ma molte volte non possono andare da sole.
Per le donne con disabilità, invece, abbiamo ascoltato storie in cui veniva sfruttata la donna da parte del compagno per appropriarsi delle sue risorse economiche, sia sottraendole la pensione di invalidità, sia costringendola a lavorare mentre non era nelle condizioni né fisiche né psichiche per farlo.
Le donne che si separano o divorziano, poi, sono un’altra fascia della popolazione che è più fragile e vulnerabile a maggiore rischio di violenza, non solo economica ma anche ad esempio di stalking (il 9% delle donne separate o divorziate intervistate ha identificato lo stalking come forme di violenza più grave). C’è un caso, poi, che può apparire controintuitivo: in letteratura diverse evidenza riportano casi di donne che magari avevano una condizione reddituale molto elevata, che in fase di separazione sono state “intrappolate” dall’ex marito, quasi per ripicca, in spese legali e processuali molto onerose, portandole appunto a perdere tutte le loro risorse. O ancora, di casi di donne che magari svolgono un lavoro più pagato o hanno un livello di istruzione più elevato del compagno o marito e che, per questo, subiscono violenza.
Si parla di teoria del backlash:1 trovarsi di fronte una donna indipendente genera fastidio, e quindi porta alla violenza. Questo perché l’empowerment femminile appare quasi come un elemento di disturbo all’interno di un ordine caratterizzato dal controllo e dalla sopraffazione maschile.
È importante quindi ribadire che non esiste una vittima tipo, perché il rischio è sempre quello della stigmatizzazione, però ci sono fattori di vulnerabilità che rischiano di esporre di più le persone. Per questo motivo quando si raccolgono i dati relativi alla violenza bisognerebbe innanzitutto disaggregarli e ottenere informazioni anche sull’area di residenza, il titolo di studio, la condizione economica (inclusa quella di comunione o separazione dei beni), la presenza di eventuali patologie o disabilità, insomma, cercare di delineare un quadro quanto più possibile dettagliato per ricostruire le storie senza perdersi dei pezzi.
La violenza economica è riconosciuta dalla Convenzione di Istanbul come una forma di violenza a tutti gli effetti. Questo vuol dire che laddove una donna si rivolge ai servizi antiviolenza, che siano Case Rifugio, sportelli o presidi che si occupano del tema, la questione viene presa in carico. In alcuni Paesi Europei vi è invece una definizione chiara e puntuale anche a livello giuridico di cosa sia la violenza economica (come ad esempio in Francia, ndr). In Italia, però, questo reato non è punito per legge.
In materia di diritto penale la violenza economica può comunque essere collegata a:
Maltrattamenti in famiglia (art. 572 del codice penale);
Violenza privata (art. 610 del codice penale);
Controllo e limitazione assoluta della libertà personale, come riduzione e mantenimento in schiavitù (art. 600 del codice penale);
Violazione degli obblighi di assistenza familiare, privazione parziale o totale delle risorse economiche necessarie per il sostentamento personale e dei figli/e (art. 570 del codice penale).
Qual è il principale cambiamento e quale strada percorrere?
È interessante il dato che è emerso nella segmentazione per fasce di età: riscontriamo più episodi di violenza, specie economica, nella popolazione anziana. Da un lato, certamente, perché la violenza è un fenomeno cumulativo. Dall’altro, però, perché l’empowerment economico femminile non è sempre stato così diffuso. Sicuramente avere consapevolezza delle proprie finanze è un fattore preventivo. Tutti gli studi in letteratura ci dicono che una corretta educazione economico finanziaria agisce come fattore preventivo. L’Italia rispetto ai Paesi OCSE non brilla in quanto a competenze economico-finanziarie. Questo vale anche per il campione maschile, ma se andiamo a vedere la quota di chi non si sente per nulla preparato rispetto alle tematiche finanziarie, stando alla nostra ricerca la percentuale delle donne sta al 10% contro un 4% maschile. C’è una consapevolezza quindi decisamente inferiore tra il genere femminile. (secondowelfare)