Ieri mattina due signori di mezz’età, dopo aver fatto le loro compere per la casa, parlavano tra di loro e spesso ripetevano il medesimo ritornello, e cioè: “U paes è mort’”. Mi sono avvicinato perchè li conoscevo e mi sono permesso di dire: “Allora cambiamolo!”.
E da qui, hanno fatto un elenco delle cose che non vanno. La prima cosa che mi ha stupito è stata la loro considerazione che nei corsi principali, quelli che dovrebbero essere più frequentati e cioè Corso Umberto I° e Corso Garibaldi, specialmente la sera, si vede solo qualche sparuta persona che forse nemmeno si riesce a conoscere visto che l’illuminazione pubblica non riesce a fare nemmeno le cosiddette “ombre della sera” con la loro luce soffusa accompagnata solo dalle vetrine di quei pochi esercizi commerciali che ancora vogliono sfidare una crisi che pare non voglia ancora finire.
Difficile dar loro torto ma l’assuefazione ad una condizione di vita deve dare il posto alla speranza che tutto possa cambiare. L’amministrazione pubblica deve fare la sua parte disegnando il futuro del proprio territorio con la sua predisposizione ai settori che meglio possono farlo crescere di una comunità che sembra voglia abbandonarsi a se stessa senza voler percepire i fermenti, che pure ci sono, di una voglia di competizione con altri territori a noi vicini.
I due signori di mezz’età non erano affatto d’accordo in quanto, sempre secondo loro, sono proprio i giovani che non hanno voglia di futuro abbandonandosi ad un destino già segnato in cui loro sono solo pedine di una scacchiera con la quale la politica non capisce il gioco perché troppo distante dalla gente.
Alla mia richiesta “allora cambiamolo questo paese”, quello più anziano mi ha detto che oltre all’amministrazione pubblica, occorre anche l’intervento della scuola, del mondo dell’associazionismo, delle comunità religiose locali, delle forze imprenditoriali per un progetto di rinascita collettiva.
E l’altro sembrava aver avuto un colpo di genio perché ha detto: “Ma c’ sta Torre Mileto, u Sc’kappar’, u Favar’ a dova avev’na fa nu villagg‘ e po’ l’agricoltura dova ognun’ va ch’ fatt’ soia ‘nvec’ d’ mett’rc’ tutt’ nzembra”.
Discorsi che non fanno una piega ma che devono essere poi esplicitati in progetti che, in parte, devono avere una breve scadenza e, in parte, una scadenza più lunga. Ma se non si comincia con il primo passo difficilmente cambierà qualcosa e la colpa sarà di tutti e allora resterà scolpita nella memoria di tutti quella drammatica frase che mi ha fatto fermare con loro: “Stu paes’ è mort’”.
Il Direttore