SAN NICANDRO: “FA BEN E SCURD’T, FA MAL E PINZ’C”

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Continua una nuova serie di articoli che parlano sui modi di dire e degli aforismi locali per capire e analizzare la quo ed offrire una visione chiara, lucida e trasparente della condizione umana in cui ognuno di noi può legittimamente dedurre o trarre da ciascuno di essi le considerazioni che gli sembrano più ovvie in riferimento ai tempi, alle usanze, ai problemi, ai comportamenti e agli altalenanti rivolgimenti che la società sta attualmente vivendo. Gli articoli sono tratti dal libro “Voci di Capitanata” di Donato D’Amico.

Il detto di oggi è: “Fa ben e scurd’t, fa mal e pinz’c”, cioè “Fai bene e scordalo, fai male e pensaci”.

Il “bene”, come fine delle nostre azioni, determina in noi uno stato di soddisfazione psicologica e di appagamento spirituale insieme. Viceversa, il “male” è tutto ciò che produce danno materiale o dolore morale. Ora, poiché nella vita di ogni giorno ciascuno di noi è alla continua ricerca di lecite disponibilità materiali o di gratificanti soddisfazioni spirituali, ecco che compiere buone azioni significa agevolare i rapporti con gli altri, soddisfare ansie ed affanni, compiacersi della gioia altrui, migliorarsi da dentro. Diciamo che il “incondizionato” deve costituire l’unica preoccupazione dell’uomo onesto, cioè, l’unica legge morale di cui l’uomo dovrebbe alimentare la propria vita.

In proposito, c’è da dire che la nostra disponibilità o prestazione è intenzionalmente ricolta ad altri, indirettamente e senza farla pesare a chicchessia, allora questa nostra propensione al bene costituisce per noi un tale appagamento interiore da desiderare di esserne sempre e comunque i veri protagonisti. E’ chiaro, naturalmente, che il nostro proverbio ci suggerisce di operare il bene come sistema di vita, liberamente, senza contropartita, senza compenso alcuno. A volte, basta un consiglio, un suggerimento, una banale indicazione o solo una semplice esortazione; a volte, ci si chiede qualcosa di più, ma non è questa richiesta che dovrebbe farci arretrare di fronte al bene, del quale, a parte il benevolo ricordo dei nostri beneficiari, dovremmo sempre alimentare il nostro istinto cristiano.

E’ vero che il “bene” riesce sempre a dare il tratto alla bilancia, ma non manca chi istintivamente o in modo sornione opera il “male”, più spesso per fini di lucro, ma anche per insana soddisfazione di vedere soffrire e piangere il proprio simile. Se la bontà umana non conosce limite di sacrificio, avendo essa in più circostanza richiesto e ottenuto persino l’olocausto della vita, nondimeno, la cattiveria degli uomini è stata talvolta così crudele e sadica da inorridire il genere umano. Solo per fare qualche esempio, basti ricordare, da una parte, il sacrificio dei cinque fratelli Salvo (immolatisi per la Patria) e, dall’altra, l’eccidio delle “Fosse ardeatine”, ove vennero trucidati oltre trecento persone innocenti.

Ecco allora ergersi davanti a noi il profondo significato del proverbio. Essi ci ammonisce, in modo quasi autoritaristico, che chi ha consapevolezza dei propri atti e pensieri non può che rendersi partecipe della vita degli altri e, dunque, operare in conformità alla legge morale per non sentirsi reo o corresponsabile dei mali del mondo. E poiché la conoscenza è una facoltà comune all’essere vivente, noi ci auguriamo vivamente che un giorno l’uomo riesca a sconfiggere il male in modo duratori e definitivo. Non dimentichiamo che il nutrimento e il godimento spirituali, che costituiscono l’humus da cui nasce e si sviluppa il senso di solidarietà e del consenso fraterni, ci provengono soltanto da una nostra interiore e spontanea disponibilità al bene incondizionato, cioè, senza quello di ritorno, quello affrancato da ogni interesse e profitto.