SAN NICANDRO: “MEGGHJ NU CATTIV’ MARIT’ CA CENT’ BON’ PARENT’”

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Continua una nuova serie di articoli che parlano sui modi di dire e degli aforismi locali per capire e analizzare la quo ed offrire una visione chiara, lucida e trasparente della condizione umana in cui ognuno di noi può legittimamente dedurre o trarre da ciascuno di essi le considerazioni che gli sembrano più ovvie in riferimento ai tempi, alle usanze, ai problemi, ai comportamenti e agli altalenanti rivolgimenti che la società sta attualmente vivendo. Gli articoli sono tratti dal libro “Voci di Capitanata” di Donato D’Amico.

Il detto di oggi è: “Megghj nu cattiv’ marit’ ca cent’ bon’ parent’” cioè “Meglio un cattivo marito che cento buoni parenti”

Nella concezione etico-sociale delle comunità la donna occupava un posto di rilievo non solo per la irreprensibilità del suo comportamento (onesto e corretto), ma anche in relazione a certe agiatezze e comunità di natura. Diciamo che l’aspetto morale e quello sociale della donna erano prevalenti nella considerazione dell’uomo, tant’è che una condotta illibata e una garantita tranquillità economica costituivano le prerogative, ovvero le doti inestimabili della donna da marito. Tuttavia, se la imprescindibilità dell’aspetto morale era assoluta, meno rigida, viceversa, era la pretesa del corredo economico-finanziario che l’uomo si aspettava dalla donna.

Questa premessa era necessaria per far capire che spesso, nei tempi andati, molte donne restavano zitelle perché non avevano una congrua dote in denaro. Questa circostanza che non tutti i genitori potevano soddisfare, costringeva la donna nubile a restare nella famiglia d’origine, a carico dei familiari. Si trattava di una spiacevole situazione di dipendenza che illanguidiva sempre più nel tempo. Infatti, nuovi e ben più gravosi compiti familiari (presenza del coniuge, di figli piccoli, di genitori anziani) non consentivano più di offrire alla sorella convivente prestazioni economiche assidue e sufficienti al decoro della donna nubile, destinata ad una vita ritirata e morigerata, dedita solo ai servizi di casa ed alla chiesa.

A questa stregua, poiché le difficoltà diventavano sempre maggiori e più gravi, alla donna nubile non restava che sposare anche un “cattivo marito”, cioè, non solo un uomo diverso dalla sua condizione sociale, ma anche una persona con prerogative caratteriali volubili ed incostanti e dagli atteggiamenti spesso severi e violenti. La differenza, ovviamente, era dovuta soprattutto alla diversa educazione ricevuta dai due futuri sposi.

Di fronte alle necessità della vita, la sopportazione di un cattivo marito, che assicurasse comunque un certo benessere economico alla famiglia, diventava una ulteriore dote della donna, la quale riusciva a coniugare, nell’interesse della famiglia, le intemperanze dell’uomo con le esigenze educative dei figli.

Il problema di oggi è di tutt’altro aspetto, tant’è che spesso molte coppie rifuggono proprio dal matrimonio, che considerano una forma di convivenza più opprimente che liberatoria delle aspettative della vita. Anche se poi tante coppie, già conviventi, convolano regolarmente a nozze, prese dal desiderio di giustificare la loro unione con il crisma dell’ufficialità.