LE NORME PER IL CONTENIMENTO DI INFEZIONI DA ANTIVIRUS SALVAGUARDANO ANCHE LA CHIESA

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La reazione della CEI al decreto del premier Conte del 26 Aprile appare, nei toni, piuttosto eccessiva.  Il consesso dei Vescovi auspicava, come tutti noi cattolici, che il decreto governativo “agevolasse o favorisse”, nel breve tempo e in qualche modo, le aspettative sulla celebrazione della Messa, in questo lungo periodo del “restiamo tutti a casa”.

La Conferenza Episcopale Italiana ha ragione da vendere, nel non vedersi riconoscere un suo diritto come quello di altre categorie sociali, alla celebrazione della Messa. Ma le chiese non sono rimaste mai chiuse!

Le stesse ragioni di artigiani, commercianti, pubblici servizi ed esercizi, per la gravità ed insidiosità del Virus che impone il mantenimento di drastici provvedimenti.

Il DPCM Fase 2 Covid19 del 26 Aprile, risulta in linea con il trattato concordatario della Chiesa del 1984, laddove si demanda allo Stato la gestione dei luoghi di culto, come quelli di Sanità, Istruzione e Ordine Pubblico.

Gli argomenti dei Vescovi, pur legittimi, che stigmatizzano il DPCM, vi riscontrerebbero attentato alla libertà di culto e impedimento alle celebrazioni, risultano sfumati e quanto irreali.

Alle disposizioni del Governo Conte si possono imputare motivi di confusione nei concetti e direttive, non certo la lodevole “Prudentia”, una delle Virtù cardinali, rispettata dal Decreto.

Ma neanche attentato ai diritti fondamentali della persona, come qualcuno sostiene, sanciti dalla Costituzione: lo studio, la salute, la libertà di culto e l’espressione del pensiero.

I sacrifici imposti ai cittadini non devono, in nessun modo, essere vanificati da provvedimenti di attenzione verso chicchessia.

La dimensione globale di una catastrofe mai verificatasi nel passato, non deve tutelare solo il profitto dei Paesi più avanzati, ma soprattutto la persona come tale.

Michele Russi (Padova)