CHI AFFONDA QUANDO LE BANCHE VENGONO SALVATE

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Bail-in: questa parola sta entrando nel nostro vocabolario, come accadde qualche anno fa allospread, e diventa motivo di preoccupazione per i risparmiatori italiani, dopo il caso delle quattro banche (Banca Marche, Popolare Etruria, CariFerrara e CariChieti) che sono state “salvate” dal governo nel novembre 2015, imponendo allo stesso tempo pesanti perdite agli azionisti e ai detentori di obbligazioni subordinate. La domanda che molti si fanno è: ma se quelle banche sono state salvate, come è possibile che i risparmiatori abbiano dovuto subire tali perdite? La sorpresa e lo scontento sono stati così forti che il governo è intervenuto con un secondo provvedimento, volto a risarcire i risparmiatori più colpiti. La risposta alla domanda è abbastanza semplice: in Europa, le regole che riguardano i salvataggi bancari sono cambiate. A partire dall’inizio di quest’anno, è in vigore una nuova direttiva europea (Bank Recovery and Resolution Directive), i cui effetti erano stati in parte anticipati al 2013 dalla Commissione UE. La direttiva impone che, prima di utilizzare fondi pubblici per salvare una banca, una quota consistente delle perdite accumulate nella passata gestione venga addossata agli azionisti e ai creditori. Questi soggetti non sono tutti sullo stesso piano, anzi c’è un ordine preciso. I primi a essere colpiti sono gli azionisti. Se ciò non basta, si passa alle obbligazioni subordinate. Poi viene il turno delle obbligazioni ordinarie. Infine, potrebbero essere chiamati in causa anche i depositanti, per le somme che eccedono i 100mila euro: fino a questo limite i depositi sono protetti dalla assicurazione e sono esenti dal bail-in. La ragione delle novità sta nelle ingenti somme spese da alcuni governi europei per salvare le banche dei loro paesi durante gli anni più neri della crisi finanziaria, dal 2008 al 2013. Quelli che hanno speso di più sono stati Germania e Regno Unito, seguiti da Irlanda, Spagna, Grecia, Belgio e Francia. La reazione dei governi, e dei loro elettorati, è stata: d’ora in poi, non si può addossare tutto il costo dei salvataggi bancari ai contribuenti. Per questo è stato introdotto ilbail-in, che obbliga azionisti e creditori a contribuire al salvataggio di una banca in crisi. La parola stessa, bail-in, si contrappone al termine inglese bail-out, con il quale venivano chiamati i salvataggi vecchio stile, completamente a carico dello Stato.

L’Italia era stata finora ai margini della vicenda. Negli anni bui della crisi finanziaria, il governo italiano ha speso somme insignificanti rispetto a quelle impiegate da altri paesi europei per sostenere il sistema bancario. Ciò è avvenuto grazie al fatto che le nostre banche erano molto meno esposte ai prodotti della cosiddetta finanza “tossica”, come i titoli derivati. Tuttavia, la crisi dell’economia reale si è poi fatta sentire anche sui bilanci delle banche italiane, che hanno accumulato una mole consistente di “sofferenze”, cioè di prestiti che (in parte) non verranno restituiti. Ora questo si riflette nella crisi di alcuni istituti di dimensione medio-piccola, che hanno la necessità di essere salvati con il contributo pubblico, dove “pubblico” vuole dire a carico del sistema bancario nel suo complesso ed eventualmente dello Stato. E qui interviene il bail-in: per ridurre al minimo possibile il contributo pubblico, gli azionisti e i creditori della banca “salvata” devono fare qualche sacrificio. Si dirà: prima gli altri governi europei hanno aiutato le loro banche, proteggendo completamente i risparmiatori; adesso che tocca a noi fare interventi di sostegno a qualche piccolo istituto, ci dicono che le regole sono cambiate e che i risparmiatori devono contribuire. È vero, però bisogna ricordare che le nuove regole europee le abbiamo approvate anche noi, o meglio i nostri rappresentanti nelle istituzioni europee: Commissione, Parlamento, Consiglio dei ministri. Le regole relative ai salvataggi bancari fanno parte del più ampio progetto di Unione bancaria, che ha avuto il pieno appoggio dell’Italia nelle trattative internazionali. Quindi i casi sono due: o i nostri rappresentanti non sapevano cosa stavano approvando, oppure lo sapevano, ma non hanno avuto la forza per opporsi all’introduzione di regole destinate ad avere pesanti ripercussioni sui risparmiatori italiani.

Che fare adesso? Ormai la frittata è fatta, e lanciare invettive contro l’Europa non serve a nulla, se non a screditare le istituzioni europee. Il principio del bail-in è stato incorporato nelle nostre leggi, e come tale va rispettato. Quello che bisogna fare è informare i risparmiatori del nuovo regime e dei rischi che comporta. Ciò deve avvenire senza fare allarmismi, perché la maggior parte delle banche italiane sono solide e con tutta probabilità non avranno bisogno di essere “salvate”. Però, una dose maggiore di trasparenza è senz’altro necessaria. Nel caso delle quattro banche salite all’onore delle cronache, la trasparenza è stata davvero scarsa. La Commissione europea, in una sua comunicazione del luglio 2013, aveva sostanzialmente anticipato il principio del bail-in, limitatamente alle azioni e alle obbligazioni subordinate. Per capire cosa sono queste ultime bisogna ricordare che, in caso di fallimento di una banca, i detentori di obbligazioni subordinate vengono rimborsati solo dopo che le attività della banca stessa sono state usate per rimborsare tutti gli altri creditori. In altre parole, le obbligazioni subordinate sono una via di mezzo tra le azioni e i normali debiti di una banca. Ma soprattutto, dall’agosto del 2013, sono aggredibili in una procedure di salvataggio bancario. Quanti investitori tra quelli colpiti dal salvataggio delle quattro banche sapevano cosa sono le obbligazioni subordinate? Quanti sapevano dei rischi che comportano, non solo in caso di fallimento, ma anche di salvataggio? Individuare le responsabilità delle banche e delle autorità in questi casi specifici è doveroso. Tuttavia, per il futuro è ancora più importante che ci sia l’impegno a migliorare l’informazione che viene data ai clienti. Speriamo in bene.

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